L’arte del gusto secondo Massimo Bottura
FOOD & BEVERAGE
14 Novembre 2025
Articolo di
Nadia Afragola
L’arte del gusto secondo Massimo Bottura
C’è un filo invisibile che lega ogni parola di Massimo Bottura al suo modo di cucinare: la memoria. Non come nostalgia, ma come energia viva, capace di trasformare un gesto antico in un linguaggio contemporaneo.
Trent’anni dopo l’apertura dell’Osteria Francescana, Massimo Bottura non parla di cucina. Parla di cultura. Perché il gusto, per lui, non è una questione di papille ma di memoria, di paesaggi interiori, di emozioni che tornano in un cucchiaio di brodo o nella crosta croccante di una lasagna. Per lui la cucina è arte, cultura, responsabilità. È dialogo tra miseria e nobiltà, tra infanzia e futuro, tra il pane raffermo che diventa oro e l’idea che un piatto possa cambiare la percezione del mondo.
In un mondo che corre dietro alle mode, lui sceglie la profondità. Trasforma gli scarti in risorsa, la tradizione in linguaggio, il piatto in racconto. “Miseria e nobiltà” non è quindi solo un menu, ma un manifesto: un invito a ricordare da dove veniamo per immaginare dove possiamo andare.
Oggi la sua cucina è un gesto politico e poetico insieme: un ponte tra le nonne del Tortellante e le cene per Expo, tra Food for Soul, i Refettori e Gucci Osteria, tra la provincia italiana e le grandi capitali del mondo.
Perché per Bottura il cibo non è mai stato lusso, ma responsabilità. E forse è proprio in questa visione che si trova la chiave del futuro: capire che ogni piatto può essere un atto d’amore, e che il sapore più duraturo resta sempre quello della memoria. In questa conversazione, Bottura racconta cosa significa oggi cucinare con coscienza, costruire comunità, credere nella bellezza come diritto universale. Ricordandoci in più passaggi come, dopo tutto, il gusto resta il modo più umano che abbiamo per dire chi siamo.
Il gusto. Mi dica un po’ di lui.
Il gusto non è soltanto una questione di papille, ma di memoria, di emozioni, di paesaggi interiori. È il filo invisibile che lega un ingrediente al suo territorio, un piatto a una storia familiare, un sapore a un momento preciso della vita. Il gusto è come una poesia: arriva improvviso, commuove, riporta indietro nel tempo. Un cucchiaio di brodo può aprire l’infanzia, un pezzo di Parmigiano può raccontare secoli di lavoro dei casari, un pomodoro maturo al sole può essere l’estate stessa che si scioglie in bocca.
Per me il gusto non è mai stato solo tecnica o estetica. È un linguaggio culturale, capace di dire chi siamo. È miseria e nobiltà insieme: la crosta croccante della lasagna rubata da bambino e l’armonia raffinata di un piatto costruito come un quadro di Hirst o un assolo di Miles Davis. Il gusto è identità, ma anche evoluzione: perché ogni incontro, ogni viaggio, ogni contaminazione lo arricchisce e lo evolve.
19 marzo 1995. Trent’anni di Francescana che nel frattempo è evoluta in Francescana Family. Cosa c’era dentro quello che è stato definito a tutti gli effetti un menu memorabile… Miseria e Nobiltà, al di là dei piatti? Ovviamente.
Il 19 marzo 1995 ho aperto Osteria Francescana con un’idea chiara: non volevo replicare il passato, volevo dialogarci. Trent’anni dopo, per celebrare questo cammino, ho creato Miseria e Nobiltà, un menu che è molto più di una sequenza di piatti: è un manifesto.
Dentro c’è la cucina povera che mi ha formato, la miseria intesa come umiltà, come gesto che non butta via nulla, come memoria custodita nella crosta croccante della lasagna o nel pane raffermo che diventa oro. Ma c’è anche la nobiltà: la forza della cultura, dell’arte, della bellezza che ti permette di trasformare quelle radici in un gesto universale.
La scintilla è arrivata da Eduardo De Filippo: “Se si resta ancorati al passato, la vita che continua diventa vita che si ferma. Ma se ci serviamo della tradizione come d’un trampolino, è ovvio che salteremo assai più in alto”. Questa frase è diventata la mia bussola. Miseria e Nobiltà non guarda al passato con nostalgia, ma lo usa come trampolino per sognare il futuro. Dentro a ogni piatto c’è la mia infanzia sotto il tavolo della nonna, ma anche il dialogo con artisti, musicisti, poeti che hanno insegnato a guardare oltre. E soprattutto, oggi, questo menu non è più soltanto mio: è il frutto della Francescana Family, di una comunità che in trent’anni ha imparato a trasformare un’osteria in un laboratorio di idee, di sogni, di responsabilità.
Chef, come è cambiato il mondo della cucina, dei cuochi… da quando all’inizio, la gente non capiva cosa accadesse all’interno della Francescana?
Quando ho aperto la Francescana, molti non capivano. La gente entrava e usciva disorientata: si aspettava il solito ristorante emiliano e invece trovava piatti che sembravano parlare un’altra lingua. All’inizio è stato difficile, perché cucinare controcorrente significa spesso sentirsi soli.
Ma io ho creduto in una cosa: non solo nella qualità degli ingredienti, ma nella qualità delle idee. Gli ingredienti li puoi comprare, le idee invece sono un patrimonio fragile, invisibile, ma capace di cambiare il mondo. Ho sempre pensato che la cucina non fosse solo tecnica, ma cultura: un luogo dove memoria, arte e futuro potevano incontrarsi nel piatto.
In questi trent’anni il mondo è cambiato tantissimo. I cuochi sono diventati voci della società, ambasciatori di valori, responsabili di gesti che vanno oltre la tavola. Oggi nessuno si stupisce più se uno chef parla di sostenibilità, di comunità, di inclusione. Ma negli anni ’90 non era così: un cuoco doveva solo “cucinare bene”.
Alla Francescana abbiamo mostrato che un piatto poteva essere un’idea, una storia, un atto politico. Ed è questo che ha fatto la differenza: credere fino in fondo che la cultura fosse l’ingrediente più importante.
Il cibo. Anche su di lui e sulla sua percezione ci sarebbe tanto da dire. Come si esce indenni dalle mode? Come si dà sostanza a un’idea? Come si fa a farla durare nel tempo? Un’idea. Un piatto.
Il cibo è il nostro linguaggio più universale, ed è proprio per questo che rischia continuamente di essere travolto dalle mode. Ogni stagione porta con sé un gusto, un ingrediente, una tecnica che diventa virale e poi scompare. Le mode sono fuochi di paglia: bruciano in fretta, spesso non lasciano memoria.
Per uscire indenni dalle mode bisogna creare un segno. Un piatto che non sia solo esercizio tecnico, ma racconto, emozione, pensiero. Qualcosa che entri nell’immaginario collettivo e diventi memoria condivisa. È l’unico modo perché un’idea duri nel tempo.
Un esempio perfetto è il piatto delle Cinque stagionature del Parmigiano Reggiano in diverse consistenze e temperature, che ho creato nel 1993. All’epoca il Parmigiano si vendeva a 18 mesi, punto e basta. Io invece, con l’aiuto visionario di Umberto Panini, cominciai a stagionare le forme migliori fino all’infinito. Non volevo solo proporre un formaggio, ma raccontare lo scorrere lento del tempo in Emilia-Romagna, la pazienza dei casari, la trasformazione della materia in emozione. Quel piatto è diventato un segno, perché ha trasformato un ingrediente iconico in un’esperienza universale. Non era una moda: era sostanza. E oggi, trent’anni dopo, se entri in qualsiasi negozio ti chiedono: “Che stagionatura vuole?” Quella che allora sembrava un’idea folle è entrata nell’immaginario collettivo e ha cambiato per sempre la percezione del Parmigiano Reggiano.
Così si dà sostanza a un’idea: creando un segno capace di resistere al tempo che poi condividi all’infinito, fino a farlo diventare patrimonio di tutti.
Concetti chiave. Tradizione e avanguardia. Convivenza (forzata)? Binari che non si incontrano? La solita domanda di sempre.
È vero, è la domanda di sempre: tradizione e avanguardia sono binari paralleli o si incontrano? Per me non è mai stata una convivenza forzata, ma un dialogo necessario.
La tradizione è il mio trampolino, come diceva Eduardo De Filippo: se la usi solo per restare ancorato al passato, la vita si ferma. Ma se la prendi come punto di partenza, ti dà la spinta per saltare più in alto. L’avanguardia, da sola, rischia di essere sterile: un esercizio di stile che non parla al cuore. La tradizione, da sola, rischia di diventare museo: memoria senza vita.
Alla Francescana ho sempre cercato di unire i due poli: il gesto umile della miseria e la nobiltà di un pensiero che guarda avanti. Tradizione e avanguardia non sono due binari separati: sono le due gambe con cui cammini. Una tiene i piedi ben piantati a Modena, l’altra ti permette di attraversare il mondo.
Il risultato non è nostalgia né provocazione fine a sé stessa: è un linguaggio vivo, che parla al presente e costruisce il futuro. In questo senso la cucina italiana è forse la più fortunata del mondo: perché la sua forza sta proprio nella capacità di trasformare memoria in innovazione, rito in gesto contemporaneo.
Perché dicono tutti che il fine dining è morto?
Ogni tanto qualcuno proclama la morte del fine dining, ma la verità è che non è morto nulla: sta solo cambiando pelle. Non è più il tempo delle cene-feticcio, dei piatti pensati per stupire a tutti i costi, delle esperienze che parlano solo a pochi privilegiati. Quel modello sì, è finito.
Il fine dining che immagino io non è mai stato lusso fine a sé stesso, ma un gesto culturale: un luogo dove un piatto può raccontare la memoria di un territorio, denunciare uno spreco, trasformare un ingrediente umile in poesia. Se questo è fine dining, allora non morirà mai, perché la cultura non muore: evolve.
Oggi gli ospiti cercano autenticità, connessione, storie vere. Vogliono sentirsi parte di qualcosa, non semplici spettatori. E allora il fine dining diventa un linguaggio capace di accogliere questa nuova sensibilità: meno formalità, più sostanza; meno distanza, più condivisione.
Se il fine dining è inteso come celebrazione di un ego, sì, quello è morto. Ma se lo vediamo come responsabilità, come atto d’amore, come spazio di immaginazione collettiva, allora è appena iniziato un nuovo capitolo.
Perché pare che nessuno abbia più voglia di fare il cuoco? Il cameriere? La gavetta? Lavorare i weekend e ogni festa comandata?
È vero: sembra che sempre meno giovani vogliano fare questo mestiere. E io li capisco. Fare il cuoco, il cameriere, vivere la gavetta, significa sacrificare i weekend, le feste, tante volte anche la vita privata. Per anni il nostro settore ha chiesto tanto, troppo, senza restituire abbastanza in termini di dignità e riconoscimento.
Ma la cucina, come la sala, sono anche luoghi straordinari: laboratori di creatività, teatri di emozioni, che comunicano un linguaggio universale. Bisogna ridare senso a questo lavoro, mostrare che non è solo fatica, ma anche opportunità di crescita personale, culturale, umana.
Io credo che la sfida sia proprio qui: dare dignità al lavoro in cucina e in sala. Garantire condizioni giuste, tempi sostenibili, formazione vera. Ma anche raccontare che la gavetta non è sfruttamento: è apprendimento, è costruzione di sé. Non si tratta più di “sopravvivere”, ma di crescere dentro una comunità che ti valorizza.
La verità è che oggi i ragazzi non vogliono lavorare meno: cercano un senso nel proprio lavoro. E questo tocca a noi costruirlo, giorno dopo giorno, facendo capire che cucinare non è solo un mestiere, ma un atto culturale, un gesto sociale, una responsabilità.
Il progetto Refettori. Come ha fatto a mettere intorno allo stesso tavolo emarginazione e cultura, lotta allo spreco e alta cucina?
Con Food For Soul e i Refettori abbiamo voluto dimostrare che la cucina non è solo nutrimento, ma un atto di dignità. Abbiamo preso ingredienti prodotti in eccesso, cucinati con la stessa cura che avremmo dedicato a un piatto da tre stelle, e li abbiamo serviti in luoghi trasformati dalla bellezza con l’aiuto di architetti, designer e artisti.
Perché?
Perché la bellezza non è un lusso: è un diritto universale. Quando metti un’opera d’arte su un muro scrostato, quando recuperi uno spazio dimenticato con l’aiuto dell’architettura, quando servi un piatto curato a chi non è abituato a ricevere attenzione, allora stai dicendo: “Tu conti. Tu meriti rispetto”.
In questo senso i Refettori sono stati un ponte: tra emarginazione e cultura, tra povertà e nobiltà. Non era beneficenza, era condivisione. Non era carità, era ospitalità. Il nostro è un progetto culturale.
Abbiamo unito lotta allo spreco e alta cucina, mostrando che uno scarto può diventare risorsa, e che la cucina d’autore non deve stare solo sulle guide, ma anche nei quartieri più fragili, nelle vite di chi ha bisogno di sentirsi accolto. E alla fine la magia è stata proprio questa: sedersi tutti intorno allo stesso tavolo. Perché la tavola è il luogo più democratico che esista.
A Osaka per celebrare Expo 2025 ha firmato una cena unica. Come si combina la cultura culinaria italiana con il ritmo di Osaka? Nel 2025 in cui tutto è a portata di mano cosa vuol dire contaminazione?
Osaka è una città che vibra: mercati affollati, grattacieli, insegne luminose e un ritmo che non si ferma mai. Portare lì la cucina italiana in occasione di Expo 2025, significa dare continuità al percorso iniziato con Expo 2015 a Milano. Il Sindaco e il Governatore di Osaka mi hanno chiesto di creare questo ponte. Io ho risposto cercando un dialogo: ho portato i simboli della mia cultura e li ho fatti incontrare con i prodotti e la sensibilità di Osaka. Ne è nato un intreccio tra il Mediterraneo e il Pacifico, tra l’Emilia e Conca Seto. La contaminazione, oggi che tutto è a portata di mano, rischia di diventare confusione. Non significa mischiare tutto con tutto. Significa ascoltare l’altro, rispettarne l’identità e trovare un punto di incontro che generi qualcosa di nuovo senza perdere le radici. In fondo è lo stesso gesto che facciamo a tavola: ci sediamo insieme, ognuno porta la propria storia, e alla fine ci ritroviamo arricchiti. La contaminazione, quando è autentica, è un atto d’amore, non di appropriazione. È il futuro della cucina: aperta, ma consapevole.
La moda. Che ruolo ha nella sua vita? Non si diventa volto Gucci per caso. Cura l’offerta gastronomica degli atelier gastronomici ma è anche uno degli Ambassador meglio riusciti.
La moda, per me, non è mai stata solo abito. È linguaggio, proprio come la cucina. Entrambe raccontano chi siamo, il nostro tempo, le nostre radici e i nostri sogni. Questo rapporto non è cominciato per caso. È un incontro naturale tra due mondi che condividono la stessa energia creativa.
Quando con Gucci abbiamo immaginato gli atelier gastronomici, non volevamo semplicemente “aprire ristoranti”: volevamo creare spazi in cui cucina e moda potessero dialogare, contaminarsi, amplificarsi a vicenda. L’abito che indossi, come il piatto che assaggi è un atto culturale: ti rappresenta, ti fa entrare in relazione con gli altri, ti invita a sognare.
Il mio ruolo di ambassador non è stato mai interpretato come una vetrina, ma come una responsabilità: mostrare che la cucina italiana, con la sua identità e la sua capacità di evolvere, può essere raccontata anche attraverso un marchio globale. Gucci mi ha dato una piattaforma straordinaria, io ci ho messo il contenuto: idee, piatti, storie.
Moda e cucina, in fondo, condividono un segreto: l’importanza del dettaglio. Un taglio perfetto, una cucitura invisibile, hanno la stessa precisione e la stessa poesia di un brodo ridotto con pazienza o di una sfoglia tirata al mattarello. È da lì che nasce la vera eleganza.
Anche la moda è cambiata. Oggi sceglie le fashion dinner, in luoghi spesso impossibili, per consolidare i rapporti con la loro community. Ci sono arrivati anche loro? Le cose migliori accadono intorno ad un tavolo.
Nei Refettori, nei tre stelle o alle Nazioni Unite. Anche le grandi maison lo hanno capito. Noi l’abbiamo capito dieci anni prima degli altri. Una sfilata può stupire, un abito può emozionare, ma è solo quando condividi un pasto che crei una relazione vera. Le fashion dinner sono diventate il nuovo modo di raccontarsi: non più solo passerelle o campagne, ma esperienze intime, spesso in luoghi impossibili, dove moda e cucina si intrecciano per costruire comunità. Perché a tavola non sei spettatore, sei parte della storia.
La cucina ha sempre saputo questo: il cibo non unisce solo ingredienti, unisce persone. È rito, è memoria, è linguaggio universale. La moda oggi condivide questo valore e lo usa per consolidare la propria identità, per dialogare con chi la ama.
In fondo è semplice: attorno a un tavolo ci si guarda negli occhi, si abbassano le difese, si condivide. E lì, in quel gesto antico e potentissimo, nasce la vera comunità.
Cucina per gli ultimi, per la gente comune e per le celebrità. L’imprenditore, e lo sportivo, la star americana e lo stilista, il politico e la top model. Cosa cambia? Quando stanno intorno ad un tavolo e aspettano che faccia uscire qualcosa dalla cucina, per loro.
Cucinare per un italiano è una pratica sociale e rituale. In Italia il pasto non è solo nutrimento, ma rito collettivo. Stare a tavola significa riconoscersi parte di una comunità, discutere, celebrare, creare legami. È una forma di “teatro quotidiano” che ha la stessa funzione di un rito religioso o di una festa popolare.
La tavola è il luogo più democratico che esista: lì non contano i titoli, i ruoli, le copertine. Contano le emozioni. Contano i ricordi che un sapore sa risvegliare, il calore che nasce dalla condivisione.
È lo stesso spirito che c’è nei Refettori: chiunque tu sia, vieni accolto con la stessa cura, la stessa dignità, la stessa bellezza. Perché la cucina non fa differenze. È un linguaggio che parla a tutti.
Quello che cambia, semmai, è la responsabilità: so che ogni piatto che esce dalla mia cucina deve avere un senso, deve lasciare un segno, deve trasmettere emozioni. È lì che la Francescana diventa non solo ristorante, ma luogo d’incontro tra mondi lontani. Alla fine, che tu sia “ultimo” o celebrità, la cosa più importante è che, almeno per il tempo di una cena, tu ti senta a casa.
Non sono femminista. Sono realista. La forza è donna. Penso a Lara Gilmore, penso a Jessica Rosval, a Roots. È cambiato anche quello, il ruolo delle donne?
L’ho visto da sempre, nella mia vita e nel mio lavoro. Penso a mia nonna Ancella, a mia mamma Maria Luigia, a mia zia Anna, a Lidia Cristoni che mi ha insegnato i primi segreti della cucina. E poi penso a Lara, mia moglie, compagna di ogni avventura, e a mia figlia Alexa, che con il suo sguardo mi ricorda sempre l’importanza di essere autentico.
Lo vedo ogni giorno nelle nonne del Tortellante, custodi di un sapere che diventa terapia, amore, comunità.
Oggi lo vedo in Jessica Rosval, in quello che ha costruito con Roots, a Casa Maria Luigia e al Gatto Verde: talento, visione, responsabilità. Donne che hanno preso la cucina e l’hanno trasformata in uno strumento di cultura, inclusione e speranza.
Il ruolo delle donne è cambiato, sì, ma soprattutto è stato finalmente riconosciuto. Perché nelle cucine le donne ci sono sempre state: erano nelle case, nelle trattorie, nei laboratori di pasta fresca. Quello che mancava era la visibilità, la possibilità di emergere senza dover chiedere permesso.
Per me la questione non è mai stata uomo o donna, ma talento. Il talento non ha genere, non ha passaporto, non ha etichette. È una scintilla che, se coltivata, può cambiare il mondo.
E oggi la forza della Francescana Family è proprio questa: un mosaico di voci, di culture, di storie diverse che insieme costruiscono qualcosa di unico.
Ha fatto tutto, raggiunto tutto, c’è qualcosa che ancora la emoziona?
Ho fatto tanto, sì, e ho avuto il privilegio di vivere esperienze che non avrei mai nemmeno immaginato. Ma quello che ancora oggi mi emoziona non è un premio, una classifica o un riconoscimento. Mi emozionano le cose semplici: il sorriso di un ragazzo del Tortellante che riesce a chiudere il suo primo tortellino, una nonna che lo abbraccia come fosse un nipote, un piatto che prende forma da un ricordo e diventa emozione per qualcun altro.
Mi emoziona aprire la porta di Casa Maria Luigia e vedere persone da ogni parte del mondo che si sentono a casa a Modena, come se fossero parte della famiglia. Mi emoziona entrare in un Refettorio e scoprire che la bellezza può cambiare la percezione di sé di chiunque, anche solo per una sera.
E mi emoziona ancora entrare in cucina, ogni giorno, e pensare che lì dentro c’è un universo infinito di possibilità: ingredienti da trasformare, storie da raccontare, sogni da condividere.
La verità è che non smetto mai di emozionarmi. Perché ogni volta che un’idea diventa segno, ogni volta che la memoria si trasforma in futuro, ogni volta che la cucina diventa linguaggio di comunità… lì nasce la vera emozione.
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