Alessandro Borghese, il viaggio di uno chef tra gavetta e televisione
FOOD & BEVERAGE
5 Agosto 2025
Articolo di
Nadia Afragola
Alessandro Borghese, il viaggio di uno chef tra gavetta e televisione
Tutti si sentono famosi allo specchio, pochi lo sono realmente. Alessandro Borghese famoso lo è per davvero. Cuoco, volto televisivo da oltre 20 anni, imprenditore visionario che alleva cavalli, si prepara per commercializzare farina di grilli, punta su una società tecnologica, concepita per offrire ai creator uno strumento potente, autonomo e sicuro per la gestione dei contenuti e nel mentre trova il tempo per accompagnare la figlia al concerto di Anna Pepe.
Una storia pazzesca la sua, una mamma, Barbara Bouchet, icona sexy del cinema italiano negli anni ’70 e un passato sulle navi da crociera, compresa l’Achille Lauro, naufragata al largo della Somalia nel 1994. Rimase 3 giorni in mare aperto su una scialuppa prima di essere tratto in salvo, poi nel 2017 decide di mettere radici a Milano, aprendo il suo primo ristorante: Alessandro Borghese – Il lusso della semplicità. Il tempo di superare la pandemia e nel 2022 attracca a Venezia, nel Palazzo Vendramin Calergi, sede del Casinò di Venezia e inaugura la sua seconda insegna gastronomica: AB – Il lusso della semplicità, di recente entrato in Guida Michelin.
Ha capito una cosa in questi anni Alessandro, che essere un cuoco non significa solo dare da mangiare alle persone, ma anche trasmettergli la sensazione che in qualche modo ci si sta prendendo cura di loro. Fa parte dello star system e sa benissimo di aver tracciato il suo percorso di vita attraverso il cibo. Ecco perché non cambierebbe nulla, neppure di una virgola.
I capelli raccolti da un elastico in uno chignon, alle dita quattro anelli d’argento, in tasca il rosario di Santa Teresina. Quante anime ha?
Fuori dalla cucina capello selvaggio, in cucina capello legato. Il rosario? Ce l’ho addosso, non in tasca. Quante anime ho? Tante anime, “tanti Alessandro diversi” che cercano di convivere. La fede è una sorta di curiosità verso qualcosa di intangibile, di ignoto. Sono credente, mi sono sposato in chiesa, c’è qualcosa che aleggia nell’aria.
È un uomo di spettacolo ma prima di tutto è un cuoco. Quanto è importante la gavetta?
È essenziale. Ti fa scoprire se vuoi fare quel mestiere oppure no, nonostante oggi i giovani, spesso alla ricerca di risultati immediati, mostrino meno interesse per questa fase. La gavetta per me è stata cruciale. Ti permette di esplorare te stesso, fare dei tentativi, capire se quel mestiere lo faresti anche non retribuito. Nel senso che… provando varie strade capisci quale percorreresti comunque perché è la tua, in modo incondizionato. Oggi si cerca il “tutto e subito” che quasi mai si concretizza perché bisogna sbagliare, più volte e avere comunque la forza di rialzarsi. Non si inizia mettendo davanti le pretese economiche, o di tempo libero. La gavetta però ti restituisce un tesoro inestimabile: ti permette di imparare il mestiere, che nel mondo della cucina è altro rispetto a ciò che ti può insegnare la scuola.
Gavetta per imparare a cucinare, gavetta per imparare a fare televisione. Cosa resta?
Era tutto più facile. Quando fai gavetta non hai responsabilità se non di te stesso, di essere preciso, puntuale, efficiente, far vedere che sei determinato, umile, che hai voglia di fare, di esserci nel momento giusto, magari quando gli altri non ci sono, di cogliere le opportunità con coerenza. Oggi le dinamiche sono cambiate e i cuochi abbracciano i social media anche per promuovere la loro “arte”. Ho iniziato a fare TV 20 anni fa, sono stato un antesignano rispetto a quello che oggi vuol dire fare televisione. Gli chef non erano delle star e la gastronomia doveva ancora uscire in maniera prepotente dalle cucine per invadere i media, i social. Ho faticato più di altri probabilmente, perché di giorno tentavo il mondo della cucina televisiva e la sera stavo ai fornelli per onorare il mio contratto di lavoro. Tornando alla gavetta, pensate allo sport. Non si inizia giocando in serie A e non arriva niente subito, né soldi né tanto meno riconoscimenti o medaglie.
È cambiato più il mondo della cucina, dei cuochi, o quello della televisione? Li ha attraversati entrambi, vivendo come dire, in trincea.
Forse è cambiato più il mondo della televisione. La cucina ha avuto i suoi picchi e vissuto le sue innovazioni. Ha avuto Ferran Adria, nuovi mentori, la cucina nordica, quella molecolare, il filone spagnolo, però per gli italiani è diverso. Siamo abituati ad essere imitati. Noi cuochi italiani siamo la Formula 1 della ristorazione, portiamo nelle cucine casalinghe pratiche nuove. Dal canto suo, la televisione è cambiata tanto. Oggi usufruiamo più del telefono che della TV, motivo per cui i cuochi si sono trasferiti dentro lo smartphone con i loro ristoranti, con le loro video ricette.
4 Ristoranti, ha spento quest’anno dieci candeline. Qual è il segreto del suo successo?
Era il 2011 quando arrivai su Real Time con “Cucina con Ale”. Ero uno dei primi cuochi giovani che in maniera abbastanza scanzonata, con la sua camicia a quadri, si metteva a cucinare davanti ad una telecamera. Oggi centinaia di colleghi fanno quello che facevo io 20 anni fa. Arrivare costa fatica, poi però devi rimanere in vetta e goderti il panorama. Il successo da due minuti possono averlo tanti, è restare in vetta ad essere faticoso.
Tutto chiaro ma il segreto del successo quale è?
Serve impegno, dedizione. Tempo. Tempo da dedicare alle persone, quando ti incontrano per strada, in un bar all’aeroporto e vogliono una foto, una stretta di mano, ritrovare quel ragazzo che in TV cucina. Parliamo di tempo dedicato a chi ti permette di rimanere dove sei. Solo così riesci a conquistare il rispetto e l’affetto della gente. Quell’empatia fidelizza soprattutto i giovani che oggi sono la mia ricchezza. Ho scuole intere di bambini che escono fuori dalle loro aule solo perché vedono il van di “4 Ristoranti” parcheggiato nella via e tu questo non lo puoi sottovalutare. Non ha valore. Non lo puoi comprare, solo guadagnare sul campo.
Dai fornelli alle telecamere, mai studi televisivi. È rimasto nei paraggi dei fuochi e delle cucine. Ok, non deve più pensare alla linea da preparare ma come si tiene tutto insieme?
Nasco cuoco e morirò cuoco. Oggi però non sto più nei miei ristoranti a fare la linea, perché con il tempo ho insegnato, e poi ho delegato. Ho costruito un gruppo di ragazzi che ha sposato la mia filosofia, il mio modo di vedere le cose e sono entusiasti di lavorare insieme a me. Spesso ci rendiamo conto troppo tardi che quell’io, io, io ti permette di arrivare solo fino a un certo punto.
Il piatto più strano che le hanno fatto assaggiare in dieci anni di 4 Ristoranti.
Tante volte ho mangiato piatti normali, ma fatti male e questo perché ho incontrato ogni genere di cuoco e ogni tipo di cucina possibile e immaginabile. Dal mega improvvisato, alle materie prime non valide, fino a coloro che non erano proprio coscienti di ciò che mettevano nel piatto.
Per non parlare delle cappe sporche…
Dico spesso che abbiamo fatto servizio sociale in giro per l’Italia. Adesso di cappe sporche ce ne sono poche. Ci siamo dedicati poi ai mestoli di legno di dubbio uso, alle affettatrici che non vengono pulite, ai frigoriferi con un HACCP campato in aria. È stato bello aver insegnato agli italiani ad andare al ristorante in maniera diversa, più consapevole, divertendosi. Oggi tutti danno voti al conto, al servizio, alla location.
Sta girando le nuove puntate di Celebrity Chef. Chi sceglie i giudici e i concorrenti?
Beh, i concorrenti li scegliamo insieme a Banijay Italia e a Sky. I giudici li scelgo io, anche se è sempre un lavoro corale. C’è Maddalena Fossati, direttrice de La Cucina Italiana e Andrea Aprea, collega napoletano che a Milano ha un ristorante con due Stelle Michelin.
Qualche curiosità divertente tra colleghi?
Indimenticabili gli scherzi a Gennaro Esposito durante le pause, nello show che conducevamo su TV8, “Piatto ricco”. Lui faceva delle micro-pennichelle e noi entravamo in camerino per scattare fotografie, un po’ come se fossimo sul set del film “Una notte da Leoni”. Ci siamo divertiti anche con Enrico Bartolini e Riccardo Monco, tutti grandi professionisti che si sono prestati alla cucina televisiva perché hanno capito che oggi il mondo gira in modo diverso e i media sono fondamentali se hai delle attività imprenditoriali.
Una vita sotto i riflettori. Sempre. Non è mai stufo della popolarità?
Un po’ sono nato in questo mondo. Mia madre Barbara Bouchet è un’attrice affermata. Da bambino le riviste ci dedicavano dei servizi fotografici e all’indomani andavi in edicola a comprare il giornale. Ammetto di avere un ego molto grande e di sapere che devo svegliarmi ed essere Alessandro Borghese.
E gli haters? Non l’hanno mai scalfita?
Che mondo brutto sarebbe senza gli haters! Sono quelli che ti seguono veramente, insieme ad una buona dose di invidia. Significa che stai facendo qualcosa di buono. Bisogna avere comunque una certa età per dare il giusto peso a queste cose e anche qui diciamo che sono stato precoce… se consideri che a quattordici anni avevo una madre nel mondo delle B-movie e sulle copertine di Playboy e Penthouse.
Ha dichiarato di essere migliorato negli ultimi anni, come accade a certi vini.
Miglioro con il tempo, anche se alcuni difetti peggiorano. Sei sempre esigente, ma ogni tanto pensi: “dai, te lo puoi permettere”. Non smetto mai di pensare a nuove idee, mi sento ancora in evoluzione.
Per rilassarsi va a correre in auto, in pista. Quell’adrenalina le permette in qualche modo di riequilibrare i chakra?
Serve esattamente per riallineare i chakra. Vengo da una famiglia di piloti e ho una figlia di tredici anni appassionata di Formula 1. Quello è il mio modo di rilassarmi. Vado in circuito, a Monza, Pavia o Cremona. Mi chiudo in macchina con il casco in testa e vado. Anche ai fornelli ho modo di riallinearmi, o con le bimbe, con mia moglie. In questo momento però nel mirino vedo il mare, quello del Salento, dove presto andrò.
Prima i The Jackal, poi Max Giusti al GialappaShow, come si prende con sportività la satira?
Che sia benedetta la satira! Tanti ragazzi sui social si divertono a montare dei meme giocando con la mia “C” strascicata. Sono rimasto piacevolmente sorpreso dai ragazzi di “The Jackal” come da Max Giusti, che fa il “Cattivissimo Me” e dice di avermi liberato dal dover essere politically correct. Credo che, se qualcuno ti imita o fa satira su di te significa che sei riconosciuto e hai fatto qualcosa di buono. Mi preoccuperei se non ci fosse nulla di tutto questo, vorrebbe dire che sono finito nel dimenticatoio.
So che sta lavorando a delle start-up che hanno a che vedere con l’intelligenza artificiale.
Non sono tutte start-up. Da 3/4 anni sto lavorando al futuro, grazie ad un progetto che si chiama JoyKey, la chiave della gioia, un’idea collettiva con dei soci, che guarda a quello che sarà il web 3.0. È una piattaforma per content creator, per monetizzare le proprie passioni, come cucina, religione, intrattenimento o sport estremi. Il lancio è previsto per settembre con AI generativa e un Concierge, un assistente digitale con cui dialogare. JoyKey permetterà di gestire la vita online monetizzando concretamente. Vorremmo entrare in Borsa nel Nasdaq nel 2030.
Ha anche aperto una scuderia di cavalli, la Gbk. Come le è venuto in mente?
È l’amore puro per le mie donne a trascinarmi nelle loro passioni. Mia moglie e le mie figlie sono appassionate di cavalli. Ho iniziato nel tempo a interessarmi anch’io e ci siamo lanciati nel mondo imprenditoriale con GBK, che acquista e vende cavalli e organizza corsi di equitazione. Un mondo affascinante, terapeutico. Mi rende felice vedere le mie figlie in mezzo agli animali. Credo sia qualcosa che contribuisca a distrarle un po’ da tutto quello che è il mondo là fuori.
Parla di internet? Degli smartphone e del loro uso smodato?
Sono come la strada, per questo non vanno dati ai ragazzi, perché una volta che sono dentro hanno accesso al mondo intero. E tu manderesti tuo figlio per strada da solo a una certa età? No. Devi avere una buona dose di consapevolezza prima di poter prendere in mano un telefono oggi. Tornando ai cavalli, è un mondo bellissimo che mi ha permesso di pensare al futuro delle mie figlie. Non credo nessuna delle due voglie fare la cuoca.
Poi nel tempo libero si occupa di grilli.
Il mercato degli insetti sia per il consumo umano che nella declinazione petfood è enorme e il grosso business è anche l’alimentazione per bovini, maiali. Se penso al commercio delle farine di grilli, devo ammettere che l’Italia è più lenta e naviga in un mare pieno di certificazioni. Il Nord Europa è un po’ più avanti, ma noi ci stiamo lavorando. L’obiettivo della nostra società è la produzione e la commercializzazione di farine di grillo. Al momento siamo in fase di messa a punto e ci vorranno almeno quattro o cinque anni prima di chiudere il cerchio. Amo guardare al futuro. I grilli, i cavalli, l’IA, sono tutti progetti che mi permettono di pensare ad Alessandro Borghese in prospettiva. E le prospettive necessitano di sacrificio, di tempo, di resilienza. È bello regalarsi dei progetti imprenditoriali che comunque generano posti di lavoro, coinvolgono la società. Tante volte il problema è convincere chi non ha la tua stessa visione. Devi essere tenace, tenere la barra dritta.
È stato anche di recente protagonista, di un video musicale, “Che gusto c’è” di Fabri Fibra.
Scrive dei testi eccezionali e poi io e Fabrizio siamo amici da anni. Lui passa tutti i santi compleanni qui da me a Milano. Mi aveva già buttato dentro un vecchio testo che era “Fenomeno” e poi abbiamo la stessa età, e come me è ancora qua a dir la sua, nonostante siano passati mille rapper, sia arrivata la musica trap e via dicendo.
Una canzone che lancia un messaggio chiaro: si sta meglio nel mondo reale.
Ogni pezzo di quella canzone ha un suo perché. Poi, mi ha fatto molto piacere collaborare con Tredici Pietro, che è il figlio di Gianni Morandi ed è una grande scoperta: un ragazzo educato, simpatico, in gamba. Mi fa piacere che Fabrizio dia l’opportunità ai giovani di emergere come faccio io in cucina.
Su Spotify ha creato una playlist divisa per argomenti culinari. È un appassionato di musica. Che ama il rock lo si capisce da lontano. Non nascerà più un altro Jim Morrison, vero? Oppure è meno disfattista nei confronti del futuro della musica?
Ogni generazione ha la sua musica. Ricordate come fu accolto il rock? La musica del diavolo. Oggi magari non comprendo determinate cose, ma è giusto così, non ho vent’anni e non ho quello spirito lì. Sono figlio del rock n’ roll di un certo tipo ma sono aperto a tutta la musica. Sono andato a vedere il concerto di Anna Pepe con mia figlia che ha nove anni e due volte a sentire i Måneskin. Che rivelazione! Fanno una musica pazzesca, sono veramente bravi. Un po’ dividono, pure io divido ma nella vita parlano i fatti.
Milano, Venezia… e poi? Sono queste le città in cui ha scelto di mettere radici, aprendo due ristoranti che oggi raccontano la sua storia. Sono previste nuove aperture? Come si sceglie dove aprire un ristorante?
Beh, può essere che ce ne sia anche una terza, una quarta e una quinta di aperture. Andiamo a monte. La location di Milano, quando l’abbiamo scelta, non teneva conto di CityLife. Era un’ex discoteca, poi un’ex palestra. Sotto c’era un supermercato di basso livello e tutte le attività intorno erano fallite. Vengo da un pensiero estero e non voglio un ristorante al piano terra. Ho fatto la gavetta sulle navi da crociera e se tu guardi questo ristorante, ci sono delle enormi vetrate in cui, anche solo per un attimo, non vedo più fuori la strada ma penso di stare ancora sulla mia nave da crociera e di avere 17 anni.
Poi arriva Venezia.
Era un bando di concorso per entrare nel Palazzo Vendramin Calergi, sede del Casinò di Venezia, affacciato sul Canal Grande. Una città romantica, gotica, di fughe d’amore. Abbiamo partecipato al bando e prima della chiusura dovuta alla pandemia è arrivato il responso: avevamo vinto. Finito il Covid, quel business plan da uno si era quintuplicato. Abbiamo dovuto fare una scelta: buttare il cuore oltre l’ostacolo e andare avanti o rinunciare. Ma quando ti ricapita una location da ristrutturare di quel genere a Venezia? Abbiamo deciso di investire tempo e denaro per aprirci una nuova strada, nonostante Venezia sia una città difficile, la devi conoscere, è fatta di turismo internazionale, di grandi alberghi. Quando tu arrivi a Venezia lasci il resto fuori, perché a Venezia si cammina a piedi o in barca. Quindi è un po’ un mondo a sé: devi entrare in punta di piedi nel tessuto sociale veneziano, far capire che “vieni in pace”.
Chi sono i suoi clienti a Venezia?
Con gli anni ho costruito una clientela veneziana, una clientela degli alberghi, una clientela dell’hinterland da Dolo a Treviso, tutto quello che è il Veneto. Diciamo che l’affaccio che ho sul Canal Grande e l’attracco privato aiutano molto. Abbiamo rifatto pontili, giardini, impianti. Abbiamo tirato fuori pavimenti veneziani nascosti da un massetto, o travi dipinte a mano coperte da controsoffitti. Poi abbiamo fatto i conti con la sovrintendenza veneziana e ce l’abbiamo fatta. Il bello è questo.
Un signature. Un piatto. La sua cacio e pepe. Cosa ha di speciale?
È buona! La cucina si divide in due: quella buona e quella cattiva. Il resto è tutta fuffa gastronomica. La cucina è viscerale, ed è la gente che fa diventare signature un piatto perché, semplicemente, continua a chiedertelo. Cos’ha di speciale la mia cacio e pepe? È mia! Ha la mia mano e poi è molto importante la scelta delle materie prime: il pepe giusto, i formaggi giusti, la pasta, soprattutto, che deve avere un morso, una tenacia, una cottura, un sapore. Il condimento arriva dopo. Un altro ingrediente? La comunicazione. Posso fare la miglior cacio e pepe del mondo, ma se lo so solo io e te… Io e te sappiamo che faccio una grande cacio e pepe. Se invece quella cacio e pepe nell’arco di vent’anni è stata comunicata in una certa maniera, la mia pasta, la cacio e pepe sarà la più buona del mondo.
Nei suoi ristoranti c’è anche tanta arte. Oggi gli chef appassionati di arte vanno di moda. Ma forse lei è partito prima che diventasse una moda.
È entrata nella mia vita più prepotentemente da quando mi sono sposato e da quando ho aperto i ristoranti. Sono sempre stato un amante del bello. Anche a casa mia, anche da piccolo. Mia madre adora lo stile Liberty e quindi c’è sempre stato il bello in casa. Penso oggi l’arte faccia parte dell’esperienza che un cliente vuole vivere al ristorante. Si mangia bene in tanti posti, ma l’esperienza è altra roba e l’arte è una buona compagna di viaggio in questo percorso.
Ha ancora dei sogni nel cassetto?
Altroché! Ho un cassetto pieno di sogni.
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