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18 Febbraio 2023

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Redazione

Cosa cerchiamo in un direttore creativo?

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18 Febbraio 2023

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Redazione
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Cosa cerchiamo in un direttore creativo?

La scelta di un nuovo direttore creativo per una maison di moda è un momento estremamente sensibile e delicato, poiché si giocano dinamiche alchimistiche tra una fitta platea di creativi con interessi stratificati e il bagaglio storico e culturale di un determinato brand.

La sfida più grande, ad oggi, è offrire la possibilità a ciascuna maison di reinventarsi senza tradire le proprie radici, strizzando l’occhio all’avanguardia e alla capacità di stupire il proprio pubblico. Sono fondamentalmente due le strade che si stanno affermando: quella del direttore creativo superstar e quella dell’anonimato. L’idea è che l’introduzione di una nuova figura sia assimilata a una mano invisibile che possa muovere i fili del sistema, fondendo l’ideale di una dimensione atemporale “sempre”, con la suscettibilità, volatilità, e forza creativa dell'”oggi”. Il motore primo è il desiderio e l’obiettivo è ricollocarlo, costantemente, su nuovi oggetti.

Due diverse idee di direttore creativo

Nel gruppo Kering, ad esempio, continua a vincere l’ideale di un anonimato in divenire, e l’ultimo nome saltato fuori è quello di Sabato De Sarno, nuovo direttore creativo di Gucci. Prima di lui, anche Alessandro Michele è stata una scommessa operata dalla maison, e proprio la sua figura ha proiettato le aspettative in alto. Il sentiment comune, espresso dai cultori del fashion, è che quando poi la personalità e l’influenza del direttore creativo supera quella espressa dalla maison stessa, allora forse è tempo di cambiare qualcosa. C’è chiaramente sempre un limite da non oltrepassare, sebbene nessuno abbia regolamentato nulla, ed è un sottile equilibrio tra la grandezza della propria personalità artistica e il quid espressivo e immaginifico che bisognerà andare a rappresentare. Fu il caso, all’epoca, anche di Marc Jabobs, ad esempio.

Al lato opposto si schiera il gruppo LVMH, aperti competitor, la cui punta di diamante è rappresentata da Louis Vuitton che, dopo la prematura scomparsa di Virgil Abloh, si trova in una situazione davvero delicata. Se dapprima la maison ha sposato l’idea di Guest Designer, lasciando che le collezioni fossero firmate dal team dietro le quinte, verosimilmente in linea con ideali e bozzetti lasciati da Abloh, successivamente è diventato necessario dare una chiara direzione operativa, e questa è passata attraverso la scelta di designare la star internazionale Pharrell Williams. Un nome non da poco, dunque, ma che calca il solco lasciato da Virgil, ovvero l’idea di una personalità sfaccettata e poliedrica che sia in grado di attingere da una cultura più stratificata e variegata, affinché LV possa continuare a sondare terreni inesplorati in continuità con la storia della maison.

Abbandonare lo sperimentalismo alla ricerca di certezze

In questo mare magnum di cambiamenti, c’è anche da capire se e quale ruolo abbia avuto l’avvento pandemico. Effettivamente, come ampiamente mostrato da numerosi report, i principali motori del mercato luxury ed high-end hanno subito una forte battuta d’arresto, guidata dalla Cina in primis, e l’esplosione di fonti alternative di intrattenimento, come TikTok, ha dato una forte spinta verso il mercato secondhand e vintage, portando la moda ad essere sempre più diffusa e riconoscibile anche tra i giovani. Le dinamiche ecologiche e sociali hanno portato a un lento ma inesorabile declino della moda legata a tendenze estemporanee in favore di item maggiormente iconici, versatili e con una minore volatilità sul mercato, in tempi incerti come questi. L’eclettismo di Alessandro Michele, dunque, forse non era più una strada percorribile, al contrario della linea operata da case come Hermès e Louis Vuitton, che hanno mantenuto stabile l’introito nonostante tutto.

Risulta chiaro che ci troviamo in un momento storico in cui la figura del direttore creativo assimilabile ad un idolo non esista più, non avremo altri John Galliano per Dior, Alber Elbaz per Lanvin o Nicolas Ghesquière per Balenciaga. Personalità che incarnavano a tuttotondo l’identità di un brand e che perduravano instancabilmente sulla scena, configurandosi come un punto fermo. La voracità del mercato, che richiede cospicue entrate, si pone in antitesi con quella di una direzione creativa manualisticamente intesa, che si configura come piuttosto un processo in continua ed imprevedibile evoluzione. Diventa necessario ritrovare la stabilità di un tempo, mantenersi entro certi canoni, lavorando nel solco della tradizione per cercare di ritagliarsi lo spazio per la propria idea.

La Gen Z incarna nuovi ideali a cui tendere

La parola d’ordine potrebbe essere sensibilità: alle spinte esterne, alle nuove tendenze e ai bisogni della community, da conciliare con gli interessi utilitaristici e di immagine di ciascuna maison. In un fervente clima di attenzione all’ambiente, e di icone a cui far riferimento, diventa imprescindibile offrire al proprio pubblico dei capisaldi da cui partire e in cui ritrovarsi, e ciò è ampiamente dimostrato dalla Gen Z, una generazione che si sta sviluppando tra le maglie della tradizione nel fashion system, sempre impegnata in attività di scavenger hunt per offrire nuova vita ad item abbandonati presso mercati secondari. Un recupero, dunque, delle silhouette tradizionali, da rendere appetibili e valorizzare nel presente, in un lavoro storico di costruzione e mantenimento di una brand identity. Questa maggiore necessità di sensibilità può anche configurarsi come un ridimensionamento del proprio estro creativo e della propria idea di stravaganza, è ad esempio il caso di Demna Gvasalia, l’irriverente visionario che con un solo passo falso ha portato ad una rivalutazione di tutta l’identità che Balenciaga ha costruito in anni ed anni di rivoluzione estetica e stilistica dei propri canoni.

Forse, dunque, sarebbe preferibile una figura più assimilabile ad una persona che ad un personaggio, in grado di lavorare sottocoperta per perseguire la mission del brand, un po’ come nel caso di Maria Grazia Chiuri per, Pierpaolo Piccioli per Valentino e Louise Trotter per Lacoste.

La vicinanza con celebrity e artisti

D’altro canto però, c’è la pressante necessità di intessere rapporti con idoli e celebrity di altri macrocosmi, in grado di attrarre e ispirare i giovanissimi, ne è un caso lampante la crescente ricerca di Brand Ambassador asiatici, con l’ascesa musicale di band coreane, ad esempio, o anche di serie TV che arrivano da oltreoceano, come nel caso di Jung Ho-yeon e Lee Jung-jae per Squid Game. Non solo, anche una grande rilevanza data ai nuovi idoli sportivi, ne è un lampante esempio la scelta di Jannik Sinner per Gucci, ad esempio. Sempre Alessandro Michele ha mostrato una certa unione di intenti con teen idol, come ad esempio Harry Styles e i Maneskin; come anche Kim Jones con Travis Scott e KAWS, artista di Brooklyn tra i più noti nel panorama streetwear, e Virgil Abloh che all’epoca ha portato in passerella Kid Cudi e Playboi Carti.

La transizione generazionale delle maison di moda passa attraverso la scelta di un direttore creativo che si configura come il trait d’union tra una maggiore spettacolarizzazione e democratizzazione del fashion system, laddove in passerella la parola d’ordine diventa “stupire”, magari con celebrity di spicco, esibizioni e attivazioni particolari, mentre sui nostri smartphone si parla di attenzione all’accessibilità della propria idea di moda, consapevoli che le nuove generazioni siano voraci di capi che possano raccontare una storia, e che sono le storie che ci legano in questa cosmogonia estetica.

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