Davide Di Fabio, l’arte di cucinare emozioni
FOOD & BEVERAGE
26 Settembre 2025
Articolo di
Nadia Afragola
Davide Di Fabio, l’arte di cucinare emozioni
Davide Di Fabio è sensibilità, tecnica, visione. Poi è anche un cuoco. Oggi guida Dalla Gioconda, un progetto di ospitalità a 360° a Gabicce Monte, di proprietà di Stefano Bizzarri e Allegra Tirotti Romanoff. Lui lo troviamo in sala: accoglie. Di lei rintracciamo lo stile anche solo nella palette colori, nella scelta delle luci. In due occhi che brillano.
Siamo nella zona più settentrionale della costa Adriatica, al confine con l’Emilia-Romagna. Un paese a misura d’uomo che mette insieme mare, collina e parco naturale.
È qui che Davide sta scrivendo la sua storia, così profondamente legata alle radici, parte integrante della sua identità culinaria. Lui che è stato il braccio destro di Massimo Bottura per oltre sedici anni, facendo suoi gli strumenti, il metodo, il rigore e quel senso di ricerca estetica e gustativa che da sempre contraddistingue quel meraviglioso parco giochi che è l’Osteria Francescana.
Tangibile la sua attenzione al contesto: non solo al piatto, ma allo spazio, all’atmosfera, ai materiali, al territorio. Perché la cucina sia un’esperienza totale, capace di evocare luoghi, infanzie, stagioni, ricordi.
Davide non cucina soltanto: narra. I profumi dell’Abruzzo, le lezioni di Massimo Bottura, la sua visione contemporanea fatta di rigore e leggerezza. I suoi sono sapori che sanno di casa ma sono capaci anche di sorprendere. La sua tecnica affascina ma non sovrasta. La sua cucina emoziona senza clamore. La storia dei grandi parte sempre così.
Cosa sta accadendo a Gabicce Monte?
Succede che siamo partiti lavorando intorno ad un servizio di ristorazione, Dalla Gioconda, e siamo passati al curare un progetto di ospitalità. Dopo il ristorante sono nate le camere e tutto ciò che avrebbe portato ad una permanenza maggiore, quindi la spiaggia, la piscina, i luoghi conviviali.
Perché questo cambio in corsa?
Più che cambio in corsa direi evoluzione. Perché va benissimo la buona ristorazione ma oggi non basta più a meno che tu non sia in una metropoli e la gente ci cade dentro. Ecco perché abbiamo deciso di offrire dei servizi. E poi avere delle camere per chi viene a cena da noi e non ha problemi di dover rientrare e/o guidare, sicuramente aiuta. Ti permette di vivere un luogo in maniera diversa, dal risveglio, alla colazione, al pranzo.
Sul menu ha scritto: “la sostenibilità non è legata solo all’ambiente ma anche al capitale umano”. Quanto vale oggi il capitale umano?
Vale più del lavoro o del pensiero del cuoco. Possiamo essere artistici nel pensiero, possiamo essere quello che vogliamo, ma alla fine prendiamo vita nei gesti di tutti i giorni. Siamo artigiani e come si fa in ogni laboratorio artigiano, devi insegnare, trasmettere quello che fai.
Di quante persone si compone il tuo team?
Nel periodo estivo circa 24-25 tra ristorante, sala e cucina. Nel periodo invernale, siamo la metà. Il ristorante non è fatto solamente dalla cucina, è fatto di accoglienza, di servizio. Il nostro è uno dei pochi lavori dove il capitale umano non può essere sostituito da una macchina. Quei ragazzi non li valuti solo per come cucinano o servono, devi tenere conto del fattore psicologico. Funziona come in una squadra di calcio. Sei in undici, se due vengono espulsi, gli altri nove devono lavorare per 11. In un ristorante il principio è simile: tu fai l’allenatore e hai dei ragazzi che metti in campo. Ognuno deve coprire il suo ruolo, ma se qualcuno manca o ci sono dei cambiamenti improvvisi, devi essere in grado di colmare il buco che si è creato.
A Gabicce cura tre proposte diverse: quella gastronomica, quella in spiaggia e quella del cocktail bar. Come si differenziano?
Il cocktail bar è aperto solo in alcune sere dell’anno, dobbiamo sviluppare adeguatamente l’attività per far sì che possa funzionare ed essere sostenibile. Oltre alla spiaggia, c’è il servizio delle colazioni, una “costola” del ristorante. La proposta per la spiaggia è molto semplice, incentrata su una cucina di mare e di territorio. Offriamo piadine, insalate di mare, pesce fresco, a seconda di ciò che i pescatori ci consegnano e poi la nostra focaccia farcita, sardoncini marinati, sorbetti che ci permettono di evitare gli sprechi di frutta.
La sua idea di cucina.
Dal mio arrivo a Gabicce ho dovuto cambiare tutto, anche la mia idea di cucina. Dopo 16 anni in un altro posto (Osteria Francescana, ndr), quando inizi una nuova avventura, in un luogo in cui vuoi fare una cucina di ricerca, è fondamentale avere un’identità chiara. Non basta mangiare bene; deve esserci qualcosa in più che valga il viaggio e l’identità culinaria la costruisci attraverso il tuo background. Sono nato e cresciuto in campagna, abituato a una grande materia prima. I miei genitori si occupavano di orto e allevamento di animali: piccione, quaglie, tacchini, conigli, non abbiamo mai comprato la carne. Così ho imparato a comprendere il valore del tempo e le varie cotture: se un pollo ha bisogno di due ore di cottura e ti trovi di fronte un animale che cuoce in 30’ capisci che c’è qualcosa che non va. La sua alimentazione, il modo in cui è stato allevato. La stessa cosa vale nell’orto: se prendi un pomodoro dalla pianta, lo tagli, strappi il basilico e ci aggiungi un buon olio hai tutto un altro sapore. Quel pomodoro vale il viaggio. È immediato, non hai dato pesticidi o diserbanti, hai solo valorizzato la materia prima. Quando hai consapevolezza della qualità degli ingredienti, ogni passaggio in cucina diventa importante. Per questo, è fondamentale circondarsi dei giusti fornitori: i cuochi devono fare i cuochi, i contadini i contadini e i pescatori i pescatori. Non devi far altro che affidarti a loro.
Ha cambiato tutto dal suo arrivo, in che senso?
Basta analizzare i piatti. Da un lato c’è uno dei nostri simboli, la zuppiera: un piatto complesso che richiede molte preparazioni e ingredienti diversi. Devi fare il brodetto, lo devi filtrare, ridurre, ci devi aggiungere la crema di ceci, cuocere la pasta, lavorare sette tipi di pesci e sette tipi di salse. Parliamo di 14 passaggi solo per preparare la base del piatto. Dall’altro ci sono la maggior parte dei nuovi piatti che hanno delle preparazioni veloci, come il pacchero con le susine. Entrambi però si portano dietro delle storie importanti.
Poi ci sono piatti come Gambero rosso, concentrato di lampone, olio al geranio e battuto di pomodoro. Semplici solo in apparenza.
Dovete far caso alla materia prima, fresca, al pescato di giornata, non congelato. La semplicità nella preparazione è poi la chiave. Parliamo di un gambero dell’Argentario, non uno di quelli congelati a bordo, che arrivano ad avere dei mesi e contengono solfiti. I nostri arrivano freschi e sono abbattuti solo per una questione legislativa. A quel gambero ho aggiunto solo un condimento, al lampone. Piatti estemporanei li chiamo io, in questo caso figlio di un incontro con una signora vicino Cesena, che coltiva dei lamponi sensazionali ma anche bacche di Goji, erbe, fiori edibili, more. È da questi incontri che la creatività in cucina si sviluppa. Questo piatto ti fa pensare ad una catalana ma in realtà c’è solo il pomodoro, di stagione. Viene preso e battuto, così avvicini la masticazione a quella del gambero, pur conservando la parte un po’ erbacea del pomodoro fresco. Il lampone viene cotto al vapore: trasformi completamente la sua consistenza fino a farlo diventare liquido, poi viene ridotto, sarà lui a dare acidità al piatto, ma anche delle note fruttate che nascono da uno studio sulle aromatiche… che quasi nessuno nota. Ci sono delle piante aromatiche, delle erbe, che per associazioni di molecole volatili si assomigliano. C’è il geranio, che con il lampone sta bene, viene semplicemente estratto a freddo con dell’olio e aggiunto sopra. Ecco le altre note profumate e citriche che compongono questo piatto. Piatti che evolvono nel tempo, magari lo stesso gambero l’anno prossimo avrà un altro condimento. Mentre la zuppiera è nata così, buona così. La rotella di pasta liquirizia è quella, non è che la puoi cambiare. Come anche la Neola, la crêpe suzette, con panna e salsa d’anatra con Grand Marnier. Sono i signature, non hanno una stagionalità.
A proposito di stagionalità…
Ci sono poi dei piatti che riprendiamo, tipo i cappelletti di olive amare che servivamo solo in inverno, dopo la raccolta delle olive. Ripresi perché abbiamo trovato il modo di conservare quelle olive tutto l’anno. Dobbiamo stare attenti quando parliamo di stagionalità: il nostro simbolo è la pizza al pomodoro, parliamo di un vegetale che raccogli tra luglio e agosto e che usiamo tutto l’anno. Quella che oggi è “ribattezzata” sostenibilità non è altro che un’esigenza di chi un tempo viveva la campagna; è lì che è nato il concetto di sostenibilità. Persone che avevano in esubero dei prodotti e trovavano un modo per conservarli. Il no-spreco è nato lì. Pensate alle affumicature e alla norcineria italiana.
Il suo cappelletto, completato da burro all’arancia e ricci di mare e abbinato ad un bitter, altro non è che il contenitore di un gusto. L’amaro delle olive nere messe in conserva a novembre. Quanto le piace l’amaro?
Tanto. Nel centro-sud Italia è un gusto che la fa da padrone. Vengo dall’Abruzzo dove ci sono la genziana, che è amara, e le erbe di campo, che sono amare, come la rucola. Quel piatto è “uscito” da casa mia, un po’ come la rotella di pasta alla liquirizia.
Ho impiegato un anno e mezzo a sviluppare quel cappelletto. Ero a mangiare da mia suocera, aveva preparato delle olive spadellate, veramente amare. Le mangiano così, nell’entroterra, durante un periodo specifico dell’anno: è il “mese delle olive in padella”. Mi piacciono molto i gusti netti di campagna, e qui sembra che la mia cucina di campagna sia riportata sul mare. Ecco perché sottolineo sempre che non faccio cucina di mare ma cucina di campagna riportata sul mare: tratto il pesce come se fosse una verdura o un pezzo di carne. Nel mio gambero il protagonista è il lampone, poi il pomodoro e solo dopo il crostaceo. Tornando al cappelletto, volevo trovare un modo per usare quelle olive, tanto amare. Dovevo trovare un contenitore che le portasse alla bocca. Ho ragionato su dove siamo e ho trovato una forma, quella dei cappelletti, di un grammo al massimo. Nel piatto trovi 12 cappelletti e 3 grammi di ripieno. Una volta cotti, è nata l’esigenza di trovare un condimento, venuto un po’ per caso. Ho pensato a come si conservano le olive: con sale e arance. Bene, l’arancia doveva essere protagonista, quindi ho fatto una riduzione di arance, molto intensa, da legare con del burro. Questo viene messo sul fondo del piatto e poi c’è il riccio di mare, che ha un finale amarognolo.
Quando c’è il fermo pesca, con cosa sostituisce i ricci?
Dipende. Non siamo in Puglia, nell’Adriatico i ricci li puoi prendere al nord, in Sicilia, in Sardegna. Il mio pescatore ha anche delle barche nel Tirreno. Lavoro sul pesce per il 90%, ma durante il fermo pesca faccio comunque ricette con il pesce del Tirreno. Dobbiamo poi fare i conti con il cambio climatico oltre che con la stagionalità. Il mese perfetto per gli scampi è maggio; eppure, ad agosto me ne hanno consegnati di pazzeschi. A Cetara le alici stanno scomparendo, arrivano nuove specie come il pesce serra.
Quasi alla fine della cena, al tavolo fa arrivare una Rotella di pasta alla liquirizia: un predessert insolito. Come si costruisce un menu?
Parte da un’idea quel piatto, intorno alla masticazione della rotella di liquirizia. Un lavoro che stavo facendo quattro anni fa sulla pasta, ragionando su quella che per me è la terza masticazione: c’è la pasta al dente, quella scotta e quella gommosa. La liquirizia la trovai praticamente fuori dalla porta di casa, mi venne naturale usarla, nonostante io non ami follemente quel sapore. Però è nata di conseguenza, perché aveva un senso. Gli altri piatti sono figli di esperienze personali. Il Gambero è nato in quella maniera lì, il cappelletto pure, e il morone è entrato in carta dopo l’ennesima richiesta che feci al mio pescatore di farmi provare qualcosa di nuovo. Una volta, mi fece assaggiare il morone del Tirreno, descrivendolo come un pesce da fondale con carne molto grassa e acquosa. Per concentrarne il gusto, ho capito che dovevo fargli perdere acqua. Da lì ho iniziato a lavorato sui gusti italiani, specialmente del centro-sud, che includono il piccante, l’amaro, l’erbaceo. Sapori netti e freschi che non richiedono l’impiego di salse o di fondi elaborati.
Il pollo arrosto, ad esempio, è un intingolo che conserva tutte le proteine coagulate che bruciacchiano, l’aglio caramellizzato e il rosmarino tostato. Ho così iniziato a lavorare su queste estrazioni. Desideravo presentare il morone al peperoncino ma in modo elegante, integrandolo con l’esperienza accumulata in Giappone, dove ho lavorato con Taka e scoperto lo yuzu koshi, peperoncini fermentati con agrumi. Ho così reinterpretato il peperoncino in un contesto italiano. I miei piatti nascono da esigenze. Un esempio è il peperone dolce dell’Animella, proveniente da Altino, un piccolo paesino in Abruzzo, famoso per una polvere di peperone che desideravo utilizzare.
Il suo dolce, Neola, si completa con un fondo di anatra. Che storia!
Uno dei pochi piatti che preparo con un fondo di cottura. Questo piatto, insieme ad altri, rappresenta l’evoluzione della cucina italiana. Pur apprezzando i fondi di cottura, ho voluto allontanarmi dalla tradizione francese dei fondi, e lavorare su intingoli e sughi, tipici della nostra cucina. Per come dovrebbe evolversi la cucina italiana, credo sia essenziale mantenere il proprio background. Per me, il fondo di cottura a fine pasto è quasi un’esigenza, un modo per concludere il pasto con un sapore dolciastro che completa l’esperienza. Stavo lavorando sulla crêpe Suzette e ho deciso di cambiarne la masticazione per darle una mia identità. Ho chiuso la crêpe in una ferratella, un dolce tipico abruzzese, piegandola a triangolo. Di solito, la parte dolce è il gelato alla crema, ma io ho utilizzato crema pasticcera, cambiando la consistenza per renderla croccante e leggera. Quando si aggiunge la salsa, una parte rimane morbida mentre l’esterno conserva una croccantezza delicata. Completa il piatto, il fondo di un’anatra all’arancia. Con l’arrivo dell’inverno introdurrò i paccheri alla Suzette.
Era il secondo di Massimo Bottura. Com’è andata?
Massimo per me è come un fratello maggiore. Prendevamo due voli a settimana, dormivamo negli stessi hotel, a volte anche in camera insieme. Ha il timone in mano e una velocità di crociera che non prevede che si possa scalare marcia. Voi lo osservate ora che è diventato mediatico, ma era così anche quando non era sotto i riflettori. Un Capodanno è venuto a ballare con noi in discoteca. A lui piace stare in mezzo al gruppo. Ripenso alla festa di chiusura della The World’s 50 Best Restaurants che si è tenuta a Torino a giugno. Era tardi, è venuto lì, ci siamo abbracciati e mi ha detto: “Io voglio che la gente vada via di qua dicendo: mi sono divertito più che in qualsiasi altra parte del mondo”. Il suo scopo era quello, divertirsi e far divertire la gente.
Cosa resta della Francescana e cosa resta di Massimo?
Di Massimo sicuramente rimane il pensiero. Quando avevo diciotto anni, ero già da lui, ho un ricordo fisso in testa di un pomeriggio d’estate: parlavo con Taka (Yoji Tokuyoshi, ndr) fuori dal ristorante di sferificazione, una tecnica appena inventata da Ferran Adrià. Lui, passando, mi disse: “Ah, ma se qui da due mesi, hai diciotto anni, devi ancora imparare a cucinare e parli di sferificazione? Sei capace a tirare una sfoglia di pasta a mattarello?” “No”. “Sai chiudere un tortellino?” “No”. “Allora da domani inizierai a far da mangiare per il personale, tutti i giorni e vai dalla Lidia a imparare il resto “. Mi cadde il mondo sotto i piedi ma quella diventò la mia sfida, ed è così che il mangiare del personale in Francescana divenne leggendario! Quello è stato il più grande insegnamento che mi potesse dare e me ne accorgo adesso, quando mi ritrovo con i ragazzi a chiedergli se sanno fare una tagliatella e loro rispondono: “Una tagliatella? Perché?”. Se non conosci la tradizione, se non la padroneggi, non potrai mai fare innovazione. Oppure devi essere completamente ateo e buttarti su una roba nuova, ma per essere un grande cuoco devi saper fare tutto.
Parliamo di una classica tagliatella al ragù?
Certo, se non sai fare alla perfezione un ragù o una tagliatella o dei cappelletti, di cosa stiamo parlando? Questo è il grosso problema, oggi: i ragazzi hanno sempre voglia di far qualcosa di nuovo ma dimenticano da dove occorre iniziare. Chi arriva da me in cucina dice che c’è così poca linea da fare. Penso a piatti come lo strozzaprete, dove c’è solo un condimento di peperoni arrosto. Peperoni cotti sulla brace, puliti e trasformati in listarelle con aglio, olio e prezzemolo. Si centrifugano per estrarre il succo, che viene ridotto. Lo strozzaprete freddo, con questa consistenza gommosa, è accompagnato dallo strato di peperoni arrosto. Il concetto di quel piatto è tutto nell’insegnamento che mi diede Massimo quel giorno: se tu non sai fare un grandissimo strozzaprete, quel piatto non ti verrà mai. E se non sai fare un grandissimo peperone arrosto, è uguale. Le basi della cucina sono fondamentali. Ci sono cose che ti porterai sempre dentro, come la sua apertura mentale. La capacità di essere open mind a qualsiasi prospettiva di un ingrediente è fondamentale. Altrimenti piatti con un senso come la rotella di liquirizia non sarebbero mai nati.
E della Francescana cosa resta?
Massimo è la Francescana. Parliamo del valore che dà ai rapporti, del senso del gruppo, dell’idea di appartenenza ad una squadra. Se uno stagista andava via, lui trovava dieci minuti per salutarlo e bere un drink con tutti noi. Questo è stato fondamentale. Massimo ha questa intuizione, questo dono, di entrare in cucina e notare subito il potenziale dei ragazzi. Riusciva a tirare fuori il meglio da ogni persona. Questo è qualcosa che io ho provato a fare mio. Sto cercando di trasmettere questo ai ragazzi, specialmente a Enrico, che è il mio secondo. Siamo insieme dal giorno 0 e ormai gestisce praticamente tutta la cucina. Non molla mai, anche se a volte si sente sopraffatto dal lavoro. Anche lui sta capendo il valore delle persone in base a quello che sanno fare. A scuola calcio ti insegnano che non puoi chiedere a un terzino di fare l’attaccante; ogni ruolo deve essere coperto in modo adeguato.
Navighi nel bello, è bello quello che vedi fatto da Madre Natura, sei in un posto bello. Quanto conta servire un piatto in un ristorante così ben fatto dove nulla è lasciato al caso?
Il cibo deve essere prima di tutto buono, indipendentemente dal bello. Ho avuto la fortuna a cinque anni di capire che avrei fatto il cuoco, già cucinavo all’ora. Però crescendo mi sono appassionato all’arte, al design. Avrei potuto fare il cuoco ma anche l’architetto o il designer di interni, ecco perché intravedete una parte artistica, creativa. Sono cresciuto con l’orto, la campagna, andavo a fare la spesa con mia mamma, compravo piatti: ho più piatti io a casa che al ristorante. Avevo una mia idea del bello, ben chiara in testa. Andavo a casa, cucinavo, facevo le mie prove, i miei primi piatti, facevo le foto e li catalogavo. Mi iscrissi alla Federazione Italiana Cuochi iniziai a fare delle gare anche internazionali. Ho dedicato tutta la mia vita alla cucina.
Fa parte dell’esperienza anche il menù vinile, la carta dei vini rilegata in legno, la fattura del tovagliolo, il poggia posate diverso per i dolci.
Certo. La porcellana del piatto cambia completamente la percezione che avrai di quel piatto. Ce lo ha insegnato Davide Scabin, parlando di food design: il contenitore dove tu metti il cibo è fondamentale. Lo stesso risotto, lo servi in un piatto piano, o in un piatto fondo, lo mangi con il cucchiaio o con la forchetta, ecco, avrai quattro piatti di riso diversi. Quando tu dedichi tutto il tempo a questi dettagli, quei dettagli ti restituiranno il risultato. Sono loro a fare la differenza, e a certi livelli tutto conta. E ogni volta devi prendere questi dettagli e capire ok qua ho migliorato, qua ho da migliorare. È quello, no? Il senso del lavoro. Da cuoco penso di avere delle intuizioni, delle idee, voglio vedere dove posso arrivare. La mattina che mi sveglierò pensando di non avere più niente da dire sono certo che avrò la forza di smettere di fare questo lavoro.
Il ristorante «Dalla Gioconda» è di proprietà della famiglia Bizzarri, con Stefano Bizzarri e sua moglie Allegra Tirotti Romanoff come gestori. Anche il padre di Stefano, Marco Bizzarri, ex CEO di Gucci è coinvolto nel progetto. Come è nato tutto?
Marco lo conoscevo bene perché è un caro amico di Massimo, hanno aperto Guccio Osteria insieme. Stefano, suo figlio, prima di aprire qui è venuto in Francescana a fare uno stage. Nel 2018 accennai a Massimo, che avrei lasciato l’Osteria Francescana. Nel frattempo, qualche mese prima, avevo conosciuto Lucia, che poi è diventata mia moglie, che è di Urbania, di queste zone. Grazie a lei mi innamorai di Pesaro, mi ricordava una piccola Modena ma portata sul mare. Poi io a Modena ho vissuto 15 anni senza macchina, andando solo in bici, in giro e a Pesaro ci sono 180 km di piste ciclabili. Due più due fa quattro: Marco mi chiamò perché stava lavorando ad una ristrutturazione mi chiese di fare due chiacchiere e poi da lì è nato tutto.
Quando deve riallineare i chakra e fermarsi un attimo, cosa fa?
Lo sport prima di tutto: corsa e bici. Mi piace stare all’aria aperta, sono cresciuto in campagna. In palestra non riesco ad andare, invece facendo ore di bicicletta o di corsa, spengo la testa ma è anche quel momento in cui penso, rifletto. Poi c’è la pesca con la mosca: l’apoteosi dello stacco, quando esci da solo, non ti prende il telefono, ti infili nel fiume, stai lì. Mia moglie si arrabbia perché andare al fiume da solo non è il massimo, però mi serve. Poi c’è la musica.
Si aggira spesso in console. L’ho vista.
Se non avessi fatto il cuoco, sarei diventato un dj. Mi piacciono i dischi, i vinili. Andare a ballare voleva dire stare in console per vedere cosa accadeva. In discoteca io ascoltavo musica. Tant’è che delle volte il DJ mi guardava e mi domandava: “Ma cosa stai facendo?” E io: “Ascolto la musica”. Era il mio viaggio.
Nel tempo libero ho bisogno di stare con la mia famiglia, spegnere il telefono, portare mia figlia a giocare, chiacchierare con mia moglie. Sono le cose della vita che ti fanno ritornare con i piedi per terra. Tornando alla domanda, ho i momenti rock ma anche quelli chill. Ascolto Virgin Radio ma anche Radio Montecarlo. Ogni stazione ha le sue funzioni. Come quando vai a mangiare fuori. Se cerchi la trattoria vai in un posto, se hai voglia di pizza vai altrove. La musica è uguale.
Non s’arrabbia mai chef?
In cucina con i ragazzi pochissimo, praticamente mai. E se mi arrabbio, finisce subito. Mia moglie mi dice spesso che invece di dar peso alle cose, mi arrabbio per le stupidaggini. A volte mi arrabbio anche con me stesso. Creo situazioni in cui poi mi chiedo: “Ma perché le ho create?”. Però è così, siamo un po’ matti noi cuochi. Se ho in mente di fare una cosa entro una certa data è impossibile per me da rispettare come scadenza. Qualcuno parlò dei cuochi come uomini dotati di genio e sregolatezza. Io sono molto regolare nella mia routine: mi alleno, sto con la mia famiglia però nella mia testa sono un po’ “sregolato”. Oggi dico una cosa e domani la cambio. Per questo ho Enrico in cucina, che è veramente una mano santa, perché lui è l’opposto di me. II menù che avete mangiato ieri? Bene, domani lo cambio. In base agli umori e a come mi diverto. Lasciateci questo. Lasciateci divertire.
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