STYLE

26 Marzo 2024

Articolo di

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Camilla Bordoni

Cosa determina il successo di una campagna?

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26 Marzo 2024

Articolo di

Camilla Bordoni
SSENSE campagna successo bambini fashion campaign

Cosa determina il successo di una campagna?

In un mercato iper stimolato, per riuscire a vendere non basta essere un marchio famoso: oggi le griffe per fare davvero centro devono mirare direttamente al cuore del consumatore. Ma quali sono gli aspetti su cui una fashion campaign deve puntare per ambire al successo?

I confini tra una categoria settoriale e l’altra negli anni si sono assottigliati sempre di più, lasciando entrare dalla porta principale quella cultura pop moderna che ha permesso, per esempio, alla moda di mischiarsi naturalmente con altre attività. Politica, musica, cinema, intrattenimento, cause sociali, insomma chi più ne ha più ne metta e tanto basta se poi il frutto della prescelta moda-match porta risultati. Positivi o negativi, importa marginalmente. L’importante ovviamente è che se ne parli sempre e comunque.

Scommettere su una fashion campaign non garantisce un’impennata delle vendite perché di base questo non è il suo unico scopo. Infatti non si tratta puramente di voler aumentare le entrate del brand ma piuttosto quello di voler distinguersi in un mercato fortemente competitivo. In che modo? Lasciando un segno, condividendo ispirazioni, desideri, abbracciando la cultura della diversità e provocando se necessario.

Ben inteso, non è una strategia nuova anche se in un’epoca costantemente connessa è comprensibile che anche le vecchie gloriose pratiche di marketing si perdano nella sovraesposizione mediatica. Ma il concetto, seppur con metodologie e una comunicazione differente, è lo stesso delle iconiche pubblicità Benetton scattate da Oliviero Toscani e consiste nel sedurre il proprio pubblico con quel forte impatto visivo che in un modo o nell’altro fa parlare. Talvolta punzecchiando una vastità di sentimenti, finanche quello che causa quel fastidioso ma umano prurito al naso.

Tenere emozioni nelle fashion campaign

Una delle prime regole pubblicitarie che insegnano ai corsi base di comunicazione è che se si progetta un’adv si deve necessariamente tenere conto dell’inconscio o, meglio, dell’impatto su quest’ultimo. Vale per tutti i settori, moda inclusa. Perciò se una fashion campaign genera una qualsivoglia risposta emozionale “positiva” anche il team marketing può dire di aver concluso con successo buona parte del lavoro. Almeno quello che riguarda il rafforzamento della brand awareness, la condivisione di un determinato schema valoriale, il legame “affettivo” con i consumatori e, last but not least, l’alta probabilità di raggiungere la viralità sui social.

Al di là degli spot Nike dal famoso claim “Just do it”, che sono noti per toccare le corde sentimentali dell’animo umano, appena qualche giorno fa è stato il retailer SSENSE ad aver dimostrato quanto detto sopra, annunciando il lancio sul proprio sito di una linea kidswear. A far gridare «groundbreaking!» non è ovviamente il fatto che nella campagna compaiano i bambini, bensì il modo in cui appaiano. Ovvero in successione, griffati dalla testa ai piedi ma impegnati in una gara di spelling. «Your word is Margiela», «Your word is Rick Owens», «How do you use the word in a sentence?». Ancora, «Your word is Burberry», ma anche Marni, Collina Strada e via dicendo. Insomma, a rendere la campagna accattivante e con milioni di views è stato il semplice effetto tenerezza. Lo stesso che si ha quando ci si ritrova a guardare in loop e a notte fonda video di gattini … forse è per questo che anche Coperni li ha scelti come modelli.

Punto tutto sull’effetto sorpresa

Nel 2024 non bastano più gli adv standard. Per essere di successo una fashion campaign deve per forza adattarsi a quei trend che smuovono il mercato e ri-adattarli secondo il proprio formato pubblicitario. L’obiettivo è pur sempre quello di essere ricordati anche ricorrendo a uno storytelling 2.0 che risulti trasversale. In questo caso si vuole più stupire che emozionare, si vuol portare per esempio lo spettatore (e non tanto il consumatore) a meravigliarsi dell’universo fantastico generato da Etro con l’AI, a seguire il domino innescato da un piccolo cagnolino (la tenerezza, ci risiamo) in un video di Jacquemus, a chiedersi se le foto “paparazzi style” di Bottega Veneta e GCDS siano autentiche o costruite. Oppure a gridare «wow!» al glow up patinato di Desigual.

Ironia della sorte

Era il lontano 2014 quando una biondissima Donatella Versace in total white veniva investita da una secchiata d’acqua gelata versatale in testa da due modelli a torso nudo. No, nessuna aggressione alla designer italiana ma solo una clip che manifestava la sua adesione alla Ice Bucket Challenge, la sfida virale di quella lontana estate. Ovvio, quello non era uno spot, ma si può dire che in un certo senso la goliardica gara cambiò un po’ la faccia del marketing. Perché due cose si capirono: che la moda poteva non prendersi troppo sul serio e che l’ironia era a tutti gli effetti catchy. Oggi, dieci anni più tardi, queste certezze sono più solide che mai soprattutto quando a riempire le conversazioni con gli amici sono più i meme che le parole. E allora tanto vale anticipare sul tempo profili come @rickdick e costruire la propria fashion campaign in modo che faccia sorridere e poi magari anche spendere.

Ed è quello che ha fatto Eastpack, marchio che è praticamente un’istituzione per chi negli anni 2000 andava al liceo e sa perfettamente che c’era solo uno zaino da avere. Proprio perché sul mercato il brand c’è da sempre, per la nuova campagna scommette sulla sua “resilienza” in chiave funny. «Siamo nati come semplici mortali. Nessuna profezia. Né superpoteri» ma continua la voce fuoricampo nell’adv: «Build to resist», fatti per resistere. Così diversi supereroi lo sfoggiano a una fermata del bus o mentre vanno in bicicletta con un’armatura.

Altro sense of humor invece per Diesel. La griffe in seno a OTB segue il mantra del “divertire ed intrattenere” ed è così che anche per il 2024 continua la sua partnership con Guinness World Record, sfruttando l’immagine di un pool di veri campioni che si cimentano nelle proprie imprese da record ma vestiti di tutto punto. Perciò è normale vedere sul profilo Instagram della firma il 91enne bodybuilder Jim Arrington in jeans e topless, la reginetta della lingua più lunga del mondo Chanel Tapper con una tiara scintillante o “l’appiccicoso” Dalibor Jablanovic, il cui primato è quello di saper reggere il maggior numero di cucchiai bilanciati sul viso, tenere in mano anche un orologio della casa.

50 shades of fashion campaign

Conosci il tuo pubblico, sviluppa una forte narrazione visiva e ora rendila provocatoria. Attenzione però, perché nell’era dove tutto, almeno sulla carta, deve essere politically correct, occorre maneggiare con estrema cura questo tipo di approccio pubblicitario, così da evitare la conseguente gogna mediatica. Detto ciò, non è un caso se sex and success fanno rima. Scandali e tabù abilmente e furbescamente esposti hanno da sempre contribuito a creare buzz intorno a determinate pratiche commerciali studiate per tempo a tavolino. A rendere le campagne iconiche è però il giusto hype nostalgico che si decide di imprimere.

Dsquared2 fornisce l’espediente perfetto in tal senso in quanto per la campagna SS24 ha scelto di portare on stage le atmosfere di un film per adulti anni ‘90, ricreando in tutto e per tutto un set della San Fernando Valley con troupe, luci e copione da imparare. E poi che dire dello spot di Calvin Klein con Jeremy Allen White senza veli (o quasi). Lasciando da parte le controversie e le accuse che ne sono venute dopo, è indubbio che per far impazzire i fan sia bastata una buona fotografia e che l’attore di “The Bear” si svestisse dei panni di chef per sfoggiare i six pack scolpiti.

Ma d’altra parte di che ci si stupisce se anche sui social per diventare virali occorre cucinare un primo piatto in modo esplicito e all’insegna del vero food porn? Che poi tra provocazione e ironia il passo per rincorrere la viraliltà è breve! Lo sa bene Brlo che con sarcasmo ha lanciato la sua versione dello spot del marchio americano. Perché la carne è carne, ma stuzzicare con un pizzico di ironia è da stella Michelin.

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