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31 Luglio 2025

Articolo di

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Michela Frau

Il futuro dei brand è nei gruppi italiani?

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31 Luglio 2025

Articolo di

Michela Frau
futuro brand gruppi italiani moda

Il futuro dei brand è nei gruppi italiani?

Nella decennale, se non centenaria, diatriba che contrappone l’Italia e la Francia, c’è un terreno di scontro nel quale i nostri cugini francesi si sono indubbiamente mostrati più esperti di noi. Con tutti i pro e i (forse tanti) contro del caso, a loro va riconosciuto il merito di aver saputo costruire grandi gruppi del lusso che, in virtù delle dimensioni e delle cifre monstre correlate, è senza dubbio più opportuno definire colossi. LVMH e Kering, con i loro rispettivi 239 e 26 miliardi (circa) di valore di mercato, ne sono la dimostrazione (quello di Prada, ad esempio, si aggira sui 13 miliardi).

«Gli italiani non l’hanno fatto a suo tempo e oggi gli manca proprio il materiale per aggregare delle aziende» dichiarò (come riportato da Fashion Network) Diego Della Valle in un incontro con gli studenti dello IULM, tenutosi ormai qualche anno fa. In quell’occasione, il patron di Tod’s, a proposito di quello che è uno dei temi storici della moda, correlava la frammentazione del sistema italiano allo stretto legame, quasi affettivo, che legava la proprietà all’azienda. Una simbiosi che non consentiva, o meglio rendeva complessa, l’ipotesi di cedere il controllo del marchio di famiglia. Ma siamo sicuri che questo sia effettivamente un problema?

Se da un lato far parte di un grande gruppo offre innumerevoli vantaggi – tra cui il fatto di avere accesso a un ingente capitale, a un ampio portfolio di talenti (crescono le dimensioni e la potenza del gruppo e, di conseguenza, anche l’attrattività agli occhi dei new talent) e a una strutturata capacità distributiva che agevola l’ingresso in nuovi mercati – dall’altro lato vi è sicuramente un prezzo da pagare, e quello che potrebbe pesar di più è il rischio di perdere l’indipendenza creativa e culturale.

Motivo per il quale, sono diversi i marchi che hanno recentemente riacquisito le quote in precedenza cedute ai grandi gruppi. Una strategia perseguita – oltre che dai brand in precedenza parte di NGG, tra cui Ambush, Alanui e Heron Preston (per cui, tuttavia, la vicenda è più complessa) – anche da Stella McCartney e Giuseppe Zanotti.

Di dimensioni ridotte e con una struttura più snella – il che rende, tra l’altro, più agevole il cambiamento repentino richiesto dai mercati – i gruppi italiani sono forse la giusta alternativa per mantenere un’identità e avere al contempo un supporto finanziario per crescere? «Offriremo una piattaforma solida, rafforzata nel corso degli anni da continui investimenti industriali e distributivi. La nostra organizzazione è pronta e ben posizionata per scrivere una nuova pagina nella storia di Versace», ha dichiarato a tal proposito Patrizio Bertelli a seguito dell’operazione che ha riacceso il sogno di un grande conglomerato del lusso italiano, sogno svanito nei primi anni Duemila e tornato alla ribalta con l’ingresso di Versace nel Gruppo Prada.

Un accordo da 1,25 miliardi di euro che segna il comeback del marchio fondato da Gianni Versace in Italia – dopo sette anni sotto il controllo dell’americana Capri Holding – e l’inizio di un nuovo capitolo che unisce la guida (e le risorse) di Prada alla direzione creativa di Dario Vitale, in una formula che, si spera, lo riporti dove merita. Ma l’operazione, tra le più rilevanti degli ultimi anni, dimostra anche che, nonostante si parli di gruppi di dimensioni contenute, il sistema moda italiano – seppur lentamente e in modo più ponderato – è comunque attraversato da una forza aggregatrice, che ha portato alla nascita di conglomerati nel tempo divenuti attori principali del fashion system.

Ma quali sono questi gruppi e quali marchi controllano?

Oltre a Versace, new entry nel conglomerato milanese, il Gruppo Prada – esclusi l’omonimo brand e Miu Miu – controlla attualmente, nel settore moda, anche Church’s e Car Shoe, a cui si aggiungono 26 siti produttivi (23 dei quali in Italia). Un impero costruito dai coniugi Prada a partire dagli anni Novanta, che ha chiuso il 2024 con ricavi pari a 5,4 miliardi di euro e che, quotato alla Borsa di Hong Kong dal 2011, oggi ha un valore di mercato che supera i 13,3 miliardi di euro.

Dopo aver rilevato Moncler, marchio fondato negli anni Cinquanta in un piccolo villaggio nei pressi di Grenoble, Remo Ruffini ha deciso di scommettere anche su Stone Island (ceduto dalla famiglia Rivetti nel 2021 per 1,15 miliardi di euro). Oggi, il gruppo di cui il manager comasco è ancora il principale azionista è quotato in Borsa dal 2013 e vanta una capitalizzazione che supera i 13 miliardi di euro. Il fatturato complessivo del 2024, frutto di un portfolio che conta solo due marchi, ammonta invece a 3,1 miliardi di euro.

Tutto ebbe inizio da un lanificio. Nel tempo, il Gruppo fondato da Ermenegildo Zegna si è espanso e, al marchio che porta il nome del suo fondatore, ha aggiunto Thom Browne nel 2021 e Tom Ford nel 2023, di cui detiene la licenza per la produzione e distribuzione a livello mondiale. A questo si sommano gli asset produttivi (due dei quali – Luigi Fedeli e Figlio, e Filati Biagioli Modesto – rilevati grazie a una joint venture siglata con Prada), per un gruppo (quotato dal 2021 a New York) il cui valore di mercato è di circa 2,3 miliardi e il fatturato complessivo di 1,9 miliardi di euro nel 2024.

Scendendo in Veneto, troviamo il Gruppo OTB. Partendo dal denim, Renzo Rosso ha costruito un conglomerato che oggi, oltre alla sua Diesel, controlla Maison Margiela (rilevata nel 2002), Viktor&Rolf (acquisita nel 2008), Marni e Jil Sander, entrate nel gruppo rispettivamente nel 2015 e nel 2021. A questi marchi, oltre alle realtà attive nella produzione, si aggiunge una partecipazione di minoranza del brand Amiri. Non quotato in Borsa, il gruppo – da 1,8 miliardi di euro di fatturato nell’esercizio 2024 – è controllato da Renzo Rosso che detiene il 90% delle quote, e dai figli Andrea e Stefano, che possiedono il restante 10%.

Sono gli anni Settanta quando Diego Della Valle trasforma l’azienda familiare del nonno Filippo in una società industriale, per lanciare poi (una decina di anni dopo) il marchio Tod’s. Con il tempo si aggiungono Hogan e Fay, inizialmente gestiti in licenza dal gruppo marchigiano che ne acquisisce poi la proprietà completa nel 2001. A questi verrà poi annesso il marchio di calzature Roger Vivier, le cui quote totali vengono rilevate nel 2016. Salutato il mercato azionario nel 2024, il Gruppo Tod’s – la cui maggioranza è nelle mani della famiglia fondatrice – è tornato privato e, secondo i dati riportati da Affari Italiani, ha chiuso l’esercizio 2024 con un fatturato che ha superato il miliardo di euro.

Risale agli anni Ottanta l’inizio della storia del Gruppo Aeffe. Nato dall’intuito di Massimo e Alberta Ferretti, che già nel decennio precedente aveva fondato l’omonimo marchio, il gruppo romagnolo ha nel tempo ampliato il suo raggio d’azione rilevando Moschino (in parte nel 1999, poi totalmente nel 2021) e Pollini nel 2001. Oggi l’azienda, quotata a Milano dal 2007, ha una capitalizzazione di circa 49 milioni e ha chiuso il 2024 con ricavi pari a 251 milioni di euro.

Non possiamo poi non parlare del Max Mara Group e della Giorgio Armani S.p.A., che pur differenziandosi dai gruppi citati in precedenza in quanto riuniscono marchi fondati internamente (e non rilevati quindi da altre proprietà), vantano entrambi un importante portafoglio di brand. Se il primo, controllato dalla famiglia Maramotti, possiede i marchi Max Mara, Sportmax, Max&Co., Pennyblack, Marella, Intrend, iBlues e Marina Rinaldi, il gruppo dello stilista piacentino gestisce, nella moda, tre marchi distinti: Giorgio Armani, Emporio Armani e A|X Armani Exchange, per un fatturato che nel 2024 si è attestato a 2,3 miliardi di euro.

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