Il lusso è in crisi ma i gioielli no
ACCESSORIES
21 Luglio 2025
Articolo di
Michela Frau
Il lusso è in crisi ma i gioielli no
A dispetto di quello che potrebbe essere il pensiero comune (chi acquista preziosi in un momento complesso come questo?), il settore della gioielleria continua a mostrarsi il più resiliente tra tutti. A dimostrarlo, ancora una volta, sono stati i risultati sorprendenti di Richemont. Le maison di gioielleria del gruppo svizzero, proprietario di Cartier, Van Cleef & Arpels, Buccellati e Vhernier, hanno infatti chiuso il primo trimestre dell’anno fiscale in corso con vendite in aumento dell’11%, portando a casa un risultato al di sopra delle stime degli analisti (che prospettavano una crescita del 9%).
Una performance importante che ha concesso al gruppo di colmare il rallentamento delle altre divisioni, tra cui spicca (in negativo) l’orologeria le cui vendite sono scivolate del 7% nello stesso periodo.
Un risultato, quello di Richemont, che appare in linea con quanto riportato, nei primi tre mesi del 2025, anche dai grandi colossi del lusso. La divisione Watches & Jewelry di LVMH, proprietaria tra i tanti di Bvlgari e Tiffany & Co., è infatti l’unica ad aver chiuso i primi tre mesi del 2025 in crescita dell’1%, che seppur lieve, appare significativa se comparata al calo del 4% dei brand Fashion & Leather Goods e alla flessione dell’8% del comparto Wines & Spirits.
Discorso simile può essere fatto anche per Kering, la quale a dispetto dei cali a doppia cifra delle sue maison di punta (Gucci in primis), nel documento finanziario relativo al primo trimestre parla di una buona performance dei suoi marchi di gioielleria: Pomellato, Boucheron, Qeelin e Dodo.
Insomma, la crescita di Richemont non può quindi essere considerata un caso, ma piuttosto la dimostrazione che i consumatori (e soprattutto quelli altospendenti) non sono in realtà scomparsi, ma hanno “semplicemente” modificato le loro abitudini di acquisto, rivolgendo la loro attenzione altrove. Non solo borsette griffate, e nemmeno capi firmati scovati in passerella: a giovare della loro rinnovata attenzione a un rapporto equilibrato tra prezzo e qualità, alla loro ricerca di prodotti il cui valore percepito rimanga stabile nel tempo, sono stati i player della gioielleria.
Tanto che, secondo le stime di Statista, il fatturato complessivo del segmento jewelry raggiungerà nel 2025 i 373,87 miliardi di dollari, una cifra che la business platform tedesca non esita a definire sbalorditiva e che si prevede crescerà annualmente del 4,90% fino al 2030, in maniera superiore quindi rispetto al +1,58% stimato per il mercato della moda di lusso. Nell’anno in corso, si prevede che ogni persona contribuirà in media con 47,8 dollari al fatturato complessivo del mercato della gioielleria e con soli 17,5 dollari (quindi meno della metà) a quello dell’abbigliamento.
Chiaro, quindi, che in un momento in cui calano i fatturati, i gruppi tentino di concentrare gli investimenti in un segmento che sia redditizio. Esempio calzante, a questo proposito, è l’espansione retail di Tiffany (rilevata da LVMH per 15,8 miliardi di dollari), che, dopo aver inaugurato in primavera a Milano la boutique più grande d’Europa, ha recentemente aperto le porte del flagship store di Ginza (ovviamente firmato anche questa volta dall’archistar Peter Marino), che guadagna il titolo di store più grande del brand in Asia (il Giappone è il secondo mercato per fatturato del marchio).
«L’attrattiva rimane chiara e inalterata dagli aggressivi aumenti di prezzo post-pandemia attuati da altri marchi del lusso», ha dichiarato a BoF l’analista di Bernstein, Luca Solca. L’esperto ha sottolineato, ancora una volta, come sia tutto in realtà collegato alla strategia di pricing. In maniera diametralmente opposta rispetto a quanto attuato dalla stragrande maggioranza delle maison di moda (le quali pagano ora i risultati di una strategia che ha messo in primo piano i margini, trascurando il rapporto di fiducia con i consumatori), i marchi della gioielleria si sono mostrati più ponderati e razionali nell’aumentare il listino.
Il che si è tradotto sia in una maggiore percezione del rapporto tra qualità e prodotto, sia in una maggiore attrattività anche verso le nuove generazioni, che possono magari permettersi più facilmente un bracciale d’oro rispetto a una borsa firmata. In un atto d’acquisto che si trasforma nell’inizio di un rapporto (si spera duraturo) con il brand.
advertising
advertising
