Dove vengono davvero prodotte le borse di Hermès?
ACCESSORIES
2 Maggio 2025
Articolo di
Michela Frau
Dove vengono davvero prodotte le borse di Hermès?
Per il signor Wang Sen, il costo di produzione di una Birkin non supererebbe i 1.400 dollari. Di questi, circa 450 servirebbero per l’acquisto della pregiata pelle Togo, 25 invece quelli utili per procurarsi la quantità di Filo Au Chinois necessaria alla fabbricazione del modello più iconico di Hermès. Vanno poi aggiunti i 50 dollari dell’olio per i bordi – rigorosamente proveniente dall’Italia – e naturalmente i costi di manodopera.
Voci la cui somma appare decisamente distante dai 38.000 dollari del prezzo di listino e che racconterebbero – a detta del forse più celebre volto protagonista della guerra commerciale scaturita a seguito dell’imposizione dei dazi e combattuta, ora, anche a colpi di hashtag sui social – quanto siano enormi i margini di guadagno delle maison.
Ma, soprattutto, tali voci svelerebbero lo scomodo segreto secondo cui la stragrande maggioranza dei prodotti di lusso (circa l’80% per quanto riguarda le borse) verrebbe in realtà prodotta in Cina. Alla maison rimarrebbe quindi il solo compito di apporre il logo, unico dettaglio capace di far lievitare il prezzo finale di qualsiasi borsa, nonché di giustificare la dicitura che ne sancisce e certifica il pregio garantendo la provenienza europea (italiana e francese in primis).
«Se vuoi la stessa qualità, gli stessi materiali, puoi semplicemente acquistare da noi» dichiara con tono incalzante il signor Wang, mentre invita i consumatori statunitensi (e non solo) ad azzerare i costi degli intermediari e ad acquistare la nuovissima Birkin, a poco più di mille dollari, direttamente dalle manifatture che – a detta sua – produrrebbero in Cina la borsa più celebre ed esclusiva tra tutte. Informazioni false, quelle sulla produzione, così come false (seppur decisamente ben fatte) sono anche le borse mostrate nel video.
Ma a questo punto viene naturale chiedersi, dove Hermès produce realmente i suoi prodotti?
La Francia rimane il cuore pulsante. Il Paese conta 60 siti di produzione e formazione organizzati in poli regionali, a cui si aggiungono 15 siti produttivi all’estero, distribuiti tra Italia, Svizzera, Regno Unito, Stati Uniti, Portogallo e Austria. Nulla firmato da Hermès viene quindi prodotto in Cina. «Ciò che conta per me è trovarmi in un luogo dove esiste un vero know-how, e un know-how storico», dichiarò qualche anno fa il CEO Axel Dumas, sottolineando come per la maison la ricerca dell’eccellenza nel savoir-faire artigianale rimanga il driver centrale nella localizzazione della produzione.
Giunti ormai alla sesta generazione, gli artigiani di Hermès custodiscono un tesoro fatto di gesti accurati, tagli precisi e cuciture robuste che si ripetono — allo stesso modo — fin dalle origini. Dal 1837 il procedimento è lo stesso: un solo artigiano realizza una borsa dall’inizio alla fine, siglandola con un marchio identificativo (assegnato all’inizio del rapporto lavorativo) che viene apposto in una parte non visibile. Ogni prodotto è così legato a un essere umano.
E ogni prodotto è così legato a una tradizione lunga oltre 188 anni, che ne determina l’elevato valore. Per realizzare una borsa occorrono dalle 15 alle 20 ore: un artigiano — che impiega circa due anni di formazione per acquisire le abilità necessarie — può realizzare due o tre borse alla settimana.
La capacità produttiva continua a essere uno dei focus su cui si concentrano gli investimenti della maison, che proprio nei giorni scorsi ha annunciato la costruzione di una nuova fabbrica di pelletteria a Colombelles, in Normandia. Costruito su un’ex area industriale (ancora una volta si conferma la predilezione dell’azienda francese per i progetti di riqualificazione rispetto alle costruzioni ex novo — un modo per restituire anche al territorio), il nuovo centro verrà inaugurato nel 2028 e creerà circa 260 posti di lavoro.
Il sito si aggiunge ad altri tre progetti in fase di sviluppo: quello a L’Isle-d’Espagnac (Charente), la cui inaugurazione è prevista per il 2025, quello a Loupes (Gironda), che aprirà nel 2026, e quello di Charleville-Mézières (Ardenne), previsto per il 2027. Cittadina, quest’ultima, che dal 2022 accoglie anche L’École Hermès des savoir-faire, specializzata in taglio e trapuntatura, e incaricata di formare la maggior parte degli artigiani di questa divisione di pelletteria.
Spinto dall’incessante aumento della domanda mondiale, che pare non soccombere alla crisi, Hermès continua così ad aprire poli produttivi a un ritmo incalzante. Solo negli ultimi anni hanno visto la luce la fabbrica di Riom (2024) – costruita su un’antica manifattura tabacchi riqualificata e specializzata nella produzione di Birkin – quella di Sormonne, nelle Ardenne (2023), e quella di Guyenne (2021). Risale invece al 2018 l’inaugurazione del laboratorio italiano di Busto Garolfo, specializzato principalmente nel comparto calzaturiero: una dimostrazione tangibile della fiducia e dell’ammirazione che Hermès nutre nei confronti del Made in Italy e del modello dei distretti, e che, d’altronde, non ha mai negato ma anzi ribadito in diverse occasioni.
«Potremmo prendere in considerazione un’integrazione verticale, con investimenti per consolidare le partnership con alcuni fornitori che condividono i nostri standard, come ad esempio la qualità», ha dichiarato il direttore finanziario Éric du Halgouët, aprendosi alla possibilità di nuove operazioni nel Paese.
Ma se allora è chiaro dove realmente sono dislocate le manifatture che danno luce ai prodotti Hermès, perché i video virali dei produttori cinesi devono allarmare la maison? Sebbene la stragrande maggioranza degli utenti abbia in realtà compreso che le borse mostrate nei video non sono altro che dupe, la vicenda fa emergere significativi (e allarmanti) segnali.
Il moltiplicarsi dei commenti di chi, con disinvoltura, chiede il link dal quale completare l’acquisto è infatti uno degli indicatori che mostrano come gli utenti siano, in misura sempre maggiore rispetto al passato, consapevolmente disponibili ad acquistare prodotti falsi. E dietro questo fenomeno non può che esserci l’insofferenza, sempre più diffusa, che i consumatori nutrono nei confronti dei brand, soprattutto a causa dell’aumento sproporzionato dei prezzi.
Secondo uno studio condotto dall’EUIPO, un terzo degli europei ritiene accettabile acquistare merci contraffatte quando il prezzo del prodotto originale è troppo elevato, e la percentuale salirebbe al 50% quando si tratta dei più giovani. E se consideriamo che solo in Italia abbigliamento e accessori contraffatti pesano per 1,7 miliardi di euro di mancate vendite per le aziende che producono item autentici, e 19 mila posti di lavoro, è chiaro perché quei contenuti su TikTok non possono essere sottovalutati.
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