Torino ama Condividere, Zanasi e il suo radicale concetto di condivisione
FOOD & BEVERAGE
13 Maggio 2025
Articolo di
Nadia Afragola
Torino ama Condividere, Zanasi e il suo radicale concetto di condivisione
Ci sono ristoranti che identificano e si identificano con le città che li ospitano. È il caso di Condividere, guidato dallo chef Federico Zanasi e dalla mente di Ferran Adrià. Siamo all’interno di Nuvola, il quartier generale di Lavazza, sorto nella periferia del capoluogo piemontese. Un investimento sulla città, un lascito alla gente del posto, una spinta a quei quartieri nei quali nessun ben pensante metterebbe piede, figuriamoci investimenti.
Eppure, è lì che prende vita il ristorante più in forma della città, quello più divertente, quello che i torinesi amano e frequentano. Zanasi non è un celebrity chef, è una veste che non gli appartiene. È semplicemente un cuoco, che “ha fatto suo il nuovo imperativo contemporaneo: la contaminazione” per citare quel capolavoro firmato da Andrea Grignaffini e Bob Noto che è “Il Cuoco universale”.
Arriva dalla Food Valley, da Modena. Dove si rintracciano le sue radici nei piatti che serve oggi?
Al ristorante Condividere il legame con Modena è sempre stato molto forte. Siamo partiti da una ricetta iconica: la tigella. Volevo portare le mie origini a Torino e far capire che non sono di qui. È fondamentale che il cliente comprenda da dove proviene il cuoco; le sue origini sono essenziali per la definizione dell’offerta gastronomica. A sei anni dall’apertura, qualcuno chiede ancora delle “tigelle modenesi”.
Parliamo del cibo della sua infanzia.
Proprio così. Da ragazzo, prendevo il motorino e andavo in giro per Modena con gli amici a mangiare tigelle; per noi era l’unico street food possibile. Ma da Condividere non ci siamo limitati al solo dizionario gastronomico modenese. Ci siamo concentrati su ciò che ho sempre trovato nella mia regione e presente in tutto il nostro Paese: il gusto. Abbiamo mantenuto una cucina gustosa, golosa e accessibile a tutti.
Essere cuoco fino a qualche anno fa era di moda; oggi lo è meno perché si è compresa la fatica che c’è dietro?
Sono un cuoco da molti anni e ho vissuto diverse fasi della professione: inizialmente era visto come un lavoro poco rispettato, paragonabile ad altri mestieri manuali come quello del metalmeccanico o dell’artigiano. Non si comprendeva l’impegno richiesto. Poi c’è stato il boom degli chef, sono nate scuole di cucina meravigliose insieme a programmi televisivi divertenti, in cui la figura del cuoco veniva presentata come quella di un creativo o una rockstar. Questo cambiamento ha giovato alla mia generazione e nel mentre siamo cresciuti insieme a questi grandi chef.

Parliamo di chef & rockstar.
Ho avuto la fortuna di lavorare con Moreno Cedroni per tanti anni quando lui era già una rockstar in cucina; lo fermavano per chiedergli autografi negli aeroporti! Oggi collaboro con un’altra rockstar della cucina mondiale, Ferran Adrià. È stata una grande opportunità comprendere l’evoluzione di elBulli, da ristorante aperto in un parco naturale, molto isolato, a meta ambita dai gourmet di tutto il mondo. Le persone in lista d’attesa erano centinaia.
Poi, arriva il Covid…
E con lui tutta una serie di cambiamenti: le persone hanno iniziato a trascorrere più tempo in casa rendendosi conto dell’importanza del tempo stesso, ora considerato il lusso più grande. Il lavoro del cuoco può apparire egoista perché richiede dedizione totale; spesso mi sento egoista quando mio figlio sta male o quando devo mancare ad appuntamenti familiari importanti perché impegnato in cucina.
Nessuno lo ha detto probabilmente in modo così chiaro.
È vero riguardo all’assorbimento totale del nostro lavoro: viviamo questa passione in modo viscerale e maniacale, dimenticando tutto ciò che ci circonda mentre siamo immersi nel nostro mondo, nelle nostre cucine. Oggi, non tutti hanno la perseveranza necessaria per affrontare impegni così gravosi su sé stessi.
Siamo in una ex centrale elettrica, oggi trasformata nel ristorante più divertente di Torino e tra i più noti d’Italia, conosciuto a livello globale. In mezzo cosa è accaduto?
Questo progetto è nato come una grande scommessa, supportato da nomi di rilievo. Mi sentivo anch’io parte di questa sfida, con tanta voglia di fare. Era necessario però canalizzare tutta questa energia. Sono grato per l’entusiasmo che ci ha accompagnato durante l’apertura e che sento tuttora. Questo luogo è diventato per i torinesi un punto di riferimento. Desideriamo semplicemente offrire ai nostri clienti un ambiente bello e familiare dove la “liturgia” gastronomica del servizio è informale come il nostro concept. La forza del ristorante risiede nella sua attenzione ai clienti piuttosto che allo chef stesso.


Avere nomi di rilievo non garantisce però il successo, come dimostrano molti progetti falliti anche con grandi firme.
La solidità è essenziale ed è stata la famiglia Lavazza a permetterci di esprimerci liberamente. Ci hanno sempre sostenuto: vengono a mangiare qui con amici e collaboratori, offrendoci un grande supporto. È raro trovare proprietà così appassionate nel settore della ristorazione. Poi c’è Adrià, che ha sempre condiviso le sue idee senza mai imporle; mi ha dato fiducia, mi ha permesso di guidare il progetto mentre lui osservava attentamente da lontano. Questa fiducia reciproca mi ha permesso di superare limiti personali e raggiungere successi inaspettati. Ora siamo pieni tutte le sere: quando apriamo le prenotazioni, i tavoli si esauriscono in poche ore e questo è sia una responsabilità, sia un segno importante di fiducia nei miei confronti e verso il mio team.
Barcellona e Torino, cosa lega queste due città oltre a lei e ad Adrià?
In apparenza nulla, anzi sono molto agli antipodi. Sono due città diverse ma collegate in modo interessante grazie alla nostra presenza. Barcellona rappresenta la fiesta, mentre Torino considera il cibo sacro. Barcellona è movida mentre Torino è riservatezza. Abbiamo preso elementi, gusti, ingredienti, tecniche, da entrambe le città, creando un’atmosfera unica nel nostro ristorante. Questo clima poco convenzionale ha contribuito al successo del ristorante, e poi qui, le persone si sentono un po’ come se fossero a Barcellona.
Alcuni descrivono Condividere come governato da un’energia calma. È stato definito un luogo energico e misurato. Quali forze lo influenzano?
L’ingrediente segreto è la sala; il cibo da solo non basta. I ragazzi trasformano veramente l’ambiente e quello di Condividere è un punto nevralgico dell’esperienza. Lavoro con loro da tanto tempo e abbiamo sempre parlato tra di noi in modo chiaro. Ho sempre detto: “Ragazzi, ricordatevi che nessuno vuole andare al ristorante per sentirsi dire buongiorno o buonasera”. Le persone desiderano essere riconosciute e sentirsi speciali; questo è ciò che dobbiamo offrire. Questi ragazzi sono quasi dei padroni di casa: sanno cosa hai mangiato l’ultima volta e si ricordano cosa ti piace bere. Questa informalità fa sentire i clienti coccolati; non deve esserci una figura dominante ma un gruppo che lavora all’unisono. Ecco perché non abbiamo un maître.

Oliva Sferica ElBulli
Avete sdoganato il concetto delle tapas: possono rappresentare buona cucina o alta cucina. Prima dell’apertura di Condividere quante volte si era parlato di tapas e alta cucina?
All’inizio eravamo considerati i cugini italiani del Tickets. Abbiamo discusso su come dovesse essere un tapas bar italiano. Loro hanno uno spirito festaiolo durante la cena, mentre noi dovevamo mantenere una certa formalità. Abbiamo quindi preso ciò che ci sembrava più simile a un tapas bar, mantenendo lo spirito della trattoria. Inizialmente tutto era condiviso.
La gente però non era abituata a condividere i piatti…
Vero, a volte nemmeno con il partner! Quando però tornavano dalla Spagna dopo un viaggio parlavano della bellezza della condivisione nei locali mentre qui, spesso, si sentivano a disagio nel farlo. Credo sia stata una grande sfida far condividere alle persone anche la scelta del menu. Prima avevamo la carta, ora offriamo solo dei menu fissi per facilitare le scelte. Spesso facevano delle ordinazioni assurde, pensando erroneamente alla modalità della condivisione: ordinavano o tutto il menu, o appena un piatto.

E se Torino fosse un piatto?
Mi trovo bene a Torino, presenta somiglianze con Bologna e Modena, ma in una dimensione più grande. È una città accogliente e a misura d’uomo. Se fosse un piatto? Penso a un dolce come il nostro strudel. Abbiamo adattato una tecnica di Albert Adrià alla cucina italiana. Il nostro strudel si prepara gonfiando la sfoglia con la tecnica di Albert; una parte è farcita con sorbetto alle mele cotte e l’altra con panna. Il risultato finale è una sfoglia alta 10 cm: appagante ma leggera. La vedo così Torino, golosa e sofisticata.
Tutti parlano dei dolci di Condividere come una sorta di creatività giocosa.
In generale, ci divertiamo nella preparazione dei dolci. Sono molto legato ai dessert; se non avessi fatto il cuoco, avrei fatto il pasticcere. Offriamo un linguaggio unico nel servire i nostri dessert: ciò che proponiamo qui non si trova altrove. Abbiamo impiegato cinque anni per raggiungere il livello attuale nella presentazione dei piatti. Non esiste un dessert principale, offriamo invece un’esperienza condivisa composta da tanti piccoli bocconi da gustare insieme. Abbiamo scelto questa formula perché molte persone faticavano a finire porzioni più grandi di dolci. Così abbiamo deciso di portare tutto al centro del tavolo: tanti piccoli assaggi per permettere a chi lo desidera di continuare a mangiare senza imbarazzo per chi si ferma. Questo approccio ha reso le nostre tavole fotografiche e attraenti per gli ospiti. Un processo ancora in corso che fa parte della nostra identità culinaria.

Un premio Oscar ha progettato Condividere: Dante Ferretti. Come lo ha pensato? Cosa ha visto?
Durante una delle nostre prime conversazioni, mi ha rivelato di non mangiare molto e spesso si è anche sorpreso di quanto invece io mangiassi. La sua visione per il ristorante era chiara: voleva uno spazio onirico e astratto, qualcosa di completamente nuovo. La scelta dei colori e degli arredi è stata fondamentale. La strategia di Ferretti è stata decisiva; senza la sua impronta creativa, avremmo probabilmente visto versioni simili del ristorante in altre città italiane. Invece, “Condividere” rimane unico nel suo genere. Ecco perché ha un valore incredibile.
Quando poi il cantiere è stato completato, Ferretti ha visto come era diventata realtà la sua visione.
Ha collaborato con fornitori esperti nella creazione di scenografie teatrali e ha seguito attentamente i lavori fino alla fine. Sono certo che durante la sua visita al locale aperto abbia apprezzato l’esperienza culinaria offerta in quel contesto particolare, figlio della sua visione. Non chiamatelo però solo ristorante, è riduttivo. È un luogo per la città di Torino, che rappresenta anche una rinascita per una zona della città fino a quel momento poco attrattiva.


Con questo progetto, un pezzo della periferia di Torino è rinato.
Nuvola è diventato un polo importante, oltre agli uffici e ai tanti posti di lavoro che ha generato. C’è il museo Lavazza che arricchisce l’offerta culturale della città ed evidenzia tra le varie cose l’importanza storica del caffè a Torino. Poi c’è il Bistrot Casa Lavazza, progetto di ristorazione collettiva che offre pranzi veloci a prezzi accessibili ed è aperto al pubblico oltre che ai dipendenti dell’azienda. Infine, la scoperta dei resti di una chiesa durante i lavori ha aggiunto ulteriore valore storico al progetto. Con la futura linea metropolitana prevista e i continui sforzi di riqualificazione dell’area attorno a Regio Parco, ci sono molti motivi per essere ottimisti riguardo al futuro della zona.
Il 2019 è stato l’anno della Stella Michelin. Che valore ha quel riconoscimento?
Ricordo il giorno della chiamata e il momento in cui sono salito sul palco. I premi hanno un significato speciale; non tanto per il loro valore intrinseco, ma perché rappresentano una conferma del nostro operato. Quando abbiamo avviato questo progetto, volevamo essere radicali nel nostro concetto di condivisione. Abbiamo rotto con la tradizione; non esisteva probabilmente un ristorante in condivisione che avesse la Stella Michelin. Vedere che il nostro lavoro e la nostra filosofia sono stati premiati è stato gratificante. Non abbiamo inseguito i riconoscimenti; abbiamo proposto la nostra offerta e l’apprezzamento da parte della Michelin ha confermato che eravamo sulla strada giusta. Salire su quel palco è stato emozionante.
All’epoca non esistevano altri premi come la Stella Verde; quindi, c’erano meno incognite rispetto ad oggi.
La telefonata fu emozionante e condivisi subito la notizia con una persona a me cara, Ferran Adrià. Da quel giorno sono passati sei anni, siamo orgogliosi del percorso fatto. I premi sopraggiunti nelle ultime edizioni della Michelin sono interessanti; quello della pasticceria soprattutto!

Anche se poi sul palco i pasticceri non ci mettono piede.
Vero, non salgono i pasticceri. Forse perché spesso a fine stagione sgattaiolano via mentre gli chef rimangono alla guida della cucina.
Perché manca da tempo una seconda stella a Torino? Sembra ci sia reticenza nel restituirle alla città dopo l’ultima assegnazione a Davide Scabin.
Oggi conquistare le due Stelle Michelin è difficile quasi quanto raggiungere le tre. Ogni anno ci sono circa 40 nuovi ristoranti stellati ma solo un paio, nel 2024, hanno portato a casa il doppio macaron. Essere scelti come uno di quei due vuol dire essere speciali, diverso da tutti gli altri. La selezione è molto ristretta, non conosco i criteri, non so se siamo tra quelli che possono ambire a un simile riconoscimento.
La cosa fondamentale resta migliorarsi ogni giorno; altrimenti tutto ciò perde di significato. Recentemente Ferran mi ha chiesto di stilare una lista delle cose fatte quest’anno e una con le cose da migliorare. È sorprendente quante cose siano state realizzate ma quante altre necessitino ancora della nostra attenzione! Mi ha persino suggerito di scrivere una lettera come fosse indirizzata a Babbo Natale per esprimere i miei desideri.
Cosa c’è scritto in quella lista?
Tra le attività svolte, abbiamo automatizzato la cantina ed eliminato un menù. Poi è importante discutere del futuro della cucina italiana e della direzione in cui si sta muovendo.
La cucina italiana in che direzione sta andando? Usciamo dal ristorante, concentriamoci per un attimo sul movimento gastronomico attuale.
Voglio parlare di Torino, è più giusto parlare della realtà in cui si è attivi. Ho notato che la gastronomia si sta allargando, con aperture interessanti anche al di fuori dei ristoranti tradizionali. Ci sono realtà in crescita: giovani chef che riscoprono la tradizione e nuovi imprenditori non italiani che propongono offerte più internazionali. Ci sono iniziative di cucina urbana in zone meno centrali. Anche se l’interesse per diventare chef è diminuito, la passione per cucinare rimane viva. Alcuni puntano sul finedining mentre altri optano per progetti più accessibili ai clienti. Un ristorante deve considerare costi e ricavi; oggi si vedono realtà più piccole e su misura rispetto al passato.
E il futuro del fine dining?
Deve essere sostenibile economicamente; realizzare progetti complessi è una sfida maggiore rispetto a prima, ma esempi come quello di Diego Rossi dimostrano che è possibile avere successo, anche a livello internazionale, senza necessariamente ricevere riconoscimenti ufficiali. Quello che conta oggi e conterà sempre più nel futuro è avere una filosofia, avere un pensiero dietro l’apertura di un ristorante.

Futuro prossimo. A giugno la The World’s 50 Best Restaurants sarà a Torino; questo rappresenta un’opportunità unica per mostrare il valore della cucina italiana spesso sottovalutata. Cosa si aspetta?
Per i colleghi italiani che sono già in guida sarà un biglietto da visita importante, per far vedere ancora di più il livello di cucina che c’è in Italia e che spesso è sottovalutato. Per Torino sarà un evento importante che porterà visibilità alla città, oltre a rappresentare un investimento significativo nella ristorazione. Ricordo con entusiasmo l’edizione di Terra Madre Salone del Gusto al Parco Valentino; spero che anche la The World’s 50 Best Restaurants possa far conoscere Torino a livello mondiale. Troveranno una città bellissima, che nessuno si aspetta di incontrare, con la sua esclusività. L’hanno scelta perché attratti dal potenziale della città, toccato con mano durante una serie di sopralluoghi. L’anno scorso sono stati ospiti a Las Vegas, l’esatto opposto rispetto a ciò che è l’essenza torinese. Non ho mai partecipato personalmente alla premiazione ma penso abbiano colto questa opportunità unica nella nostra città.
Futuro, in che direzione state andando?
Ecco, una delle cose che avevo chiesto a Ferran Adrià era di internazionalizzarci. Magari attraverso iniziative promozionali come il libro “Condividere” che è appena uscito o partecipando a manifestazioni dedicate alla cultura gastronomica. Andare fuori? Fatico sempre un po’. Servono basi solide. Prendere, andare, raccontare, divulgare, bisogna avere qualcosa da dire. Un passo alla volta. Mi trovo bene a Torino, sono low profile.
Non andrà a cucinare quindi negli Emirati?
No, preferisco cucinare per i torinesi.

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