Milano-Cortina 2026: l’architettura delle Olimpiadi e la città che cambia
LIFESTYLE
17 Dicembre 2025
Articolo di
Anna Paola Parapini
Milano-Cortina 2026: l’architettura delle Olimpiadi e la città che cambia
Con l’avvicinarsi dei Giochi Olimpici Invernali del 2026, Milano non si limita a preparare una macchina organizzativa: mette a fuoco, ancora una volta, la propria idea di città. A differenza del passato, le Olimpiadi non producono più – o non solo – architetture simboliche destinate a imporsi come segni assoluti nello skyline. Oggi funzionano piuttosto come acceleratori: di cantieri, di visioni, di processi già avviati. Milano-Cortina 2026 si inserisce pienamente in questa logica, trasformando lo sport in uno strumento capace di rendere leggibile una metamorfosi urbana che covava da anni.
Oltre l’icona: cosa significano oggi le Olimpiadi per una città
L’epoca delle grandi architetture-monumento sembra definitivamente superata. Se nel Novecento eventi come le Olimpiadi servivano a imprimere un segno riconoscibile e duraturo – spesso isolato dal contesto urbano – oggi il paradigma è cambiato. Le manifestazioni internazionali contemporanee preferiscono intervenire in modo diffuso, lavorando su infrastrutture, spazi pubblici e sistemi di mobilità più che su singoli edifici iconici. Parigi 2024, con la scelta di investire sulla balneabilità della Senna piuttosto che su nuovi landmark, ha reso evidente questo cambio di prospettiva.
Milano segue una traiettoria simile. L’orizzonte olimpico diventa una scadenza simbolica e politica che consente di accelerare trasformazioni già in corso, legittimando investimenti e decisioni spesso rimandate. Milano-Cortina 2026 non va quindi letta come un progetto unitario e centralizzato, ma come un ecosistema di interventi: alcuni direttamente legati ai Giochi, altri che sfruttano la loro forza narrativa per trovare finalmente compimento. È un’Olimpiade che lavora più per sottrazione che per accumulo, più sul sistema che sull’oggetto.
Il Villaggio Olimpico di Porta Romana: da vuoto urbano a spazio abitato
Il Villaggio Olimpico e Paralimpico di Porta Romana è uno degli interventi più emblematici dell’intero programma. Firmato da Skidmore, Owings & Merrill (SOM), sorge all’interno dell’ex scalo ferroviario, uno dei grandi vuoti urbani che per decenni hanno segnato la geografia milanese come territori sospesi: recintati, inaccessibili, privi di una reale funzione. Qui l’architettura non arriva come gesto iconico, ma come primo atto concreto di riappropriazione. Il progetto combina sei edifici residenziali di nuova costruzione con il recupero di due capannoni storici, organizzati attorno a una grande piazza pubblica e a un sistema di spazi verdi. Le facciate sono scandite da balconi continui che richiamano le case a ballatoio della tradizione milanese, reinterpretate in chiave contemporanea. Non si tratta di un riferimento nostalgico, ma di una scelta tipologica precisa: il ballatoio come luogo di relazione, di attraversamento, di vita collettiva.
Abitare dopo i Giochi: la doppia vita come progetto
Il nodo centrale del Villaggio Olimpico non è tanto la sua funzione temporanea durante i Giochi, quanto la sua vita successiva. Fin dall’inizio, l’intero complesso è stato progettato per evitare uno dei grandi fallimenti storici dell’architettura olimpica: l’abbandono post-evento. Dopo il 2026, gli alloggi destinati agli atleti verranno riconvertiti in uno studentato con circa 1.700 posti letto, diventando il più grande intervento di edilizia convenzionata per studenti in Italia. Questa doppia vita incide profondamente sulle scelte progettuali. Gli spazi interni, le distribuzioni, gli arredi e persino le dotazioni impiantistiche sono pensati per attraversare il cambiamento senza essere smantellati. Anche la sostenibilità viene affrontata in modo strutturale: zero emissioni operative, impianti fotovoltaici, recupero delle acque piovane, materiali durevoli. Ma la sostenibilità più rilevante è quella temporale: un’architettura che non nasce per consumarsi in poche settimane, ma per adattarsi a nuovi bisogni urbani.
Santa Giulia e Arena Milano: l’architettura come dispositivo urbano
Se Porta Romana racconta la rigenerazione di un vuoto storico, Santa Giulia rappresenta il tentativo di completare una periferia incompiuta. Qui sorge la nuova Arena Milano, progettata da David Chipperfield Architects con Arup, destinata a ospitare le competizioni di hockey su ghiaccio e para ice hockey. Con i suoi 16.000 posti, l’edificio diventerà la più grande arena coperta d’Italia. Dal punto di vista architettonico, l’Arena evita qualsiasi enfasi spettacolare. Il volume cilindrico è articolato in tre anelli sovrapposti, collegati da fasce trasparenti che alleggeriscono la massa e mettono in relazione interno ed esterno. L’edificio si affaccia su una grande piazza pubblica di oltre 10.000 metri quadrati, pensata come spazio urbano attivo anche al di fuori degli eventi sportivi. Inserita nel masterplan di rigenerazione firmato da Mario Cucinella Architects, l’Arena è concepita come un catalizzatore urbano: non un oggetto isolato, ma un’infrastruttura culturale capace di attivare flussi, servizi e vita pubblica in un’area rimasta per anni sospesa tra promesse e cantieri.
David Chipperfield Architects + Arup
Tra nuove architetture e sedi storiche: un’Olimpiade diffusa
Uno degli aspetti più interessanti di Milano-Cortina 2026 è la sua natura diffusa. Accanto ai nuovi progetti, molte sedi storiche vengono aggiornate e rimesse in funzione. L’Unipol Forum di Assago, rinnovato per ospitare pattinaggio di figura e short track, continuerà a essere un punto di riferimento per gli sport del ghiaccio anche dopo le Olimpiadi.
Fieramilano, invece, accoglierà strutture temporanee dedicate al pattinaggio di velocità e all’hockey, dimostrando come l’architettura effimera possa essere utilizzata in modo strategico e non invasivo. Fuori Milano, il Curling Olympic Stadium di Cortina – costruito nel 1955 – viene riqualificato con particolare attenzione ad accessibilità, comfort e sostenibilità. Anterselva, Predazzo, Livigno e Bormio aggiornano impianti esistenti, intervenendo più sulla qualità dell’esperienza che sulla forma architettonica. È un approccio che privilegia l’aggiornamento del patrimonio rispetto alla sua sostituzione.
Milano a livello del suolo: la trasformazione meno visibile
La trasformazione più radicale in vista delle Olimpiadi non è necessariamente quella che si fotografa dall’alto. Dal 2015 in poi, e in particolare lungo il tracciato della nuova metropolitana M4, Milano ha ripensato il proprio spazio pubblico. Viali e piazze sono stati ridisegnati privilegiando il pedone, la mobilità ciclabile e la qualità dello spazio aperto.
Da viale Argonne a San Babila, da corso Europa a via Lorenteggio, il “piano terra” della città è cambiato: marciapiedi più ampi, carreggiate ridotte, nuove alberature, piste ciclabili continue. È una trasformazione meno spettacolare di un’arena olimpica, ma infinitamente più incisiva sul modo in cui la città viene vissuta ogni giorno.
Eredità, aspettative e contraddizioni
Come ogni grande evento, anche Milano-Cortina 2026 porta con sé entusiasmi e critiche. C’è chi contesta l’estetica di alcune architetture, chi teme che le promesse di accessibilità restino sulla carta, chi guarda con sospetto alla retorica della rigenerazione urbana. Sono dibattiti legittimi e, in parte, inevitabili. Ma una cosa è chiara: le Olimpiadi stanno funzionando come una lente d’ingrandimento. Rendono visibili scelte, priorità e contraddizioni di una città che da anni sperimenta nuovi modelli di sviluppo urbano. Non tutto funzionerà alla perfezione, non tutto sarà equo. Ma difficilmente Milano tornerà indietro.
Milano-Cortina 2026 non lascerà una nuova Tour Eiffel. Lascerà qualcosa di meno immediato, ma più profondo: quartieri finalmente abitati, infrastrutture riattivate, spazi pubblici migliori, una città più europea nel modo in cui si muove e si vive. Lo sport, in questo caso, non è il fine. È il pretesto per accelerare una trasformazione urbana che continuerà ben oltre il momento in cui la fiamma olimpica si spegnerà.
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