Il mistero dei gioielli dei Savoia
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11 Novembre 2025
Articolo di
Michela Frau
Il mistero dei gioielli dei Savoia
Undici sono i sigilli che proteggono il prezioso cofanetto a tre piani, rivestito in pelle nera, che dal 1946 giace al sicuro nel caveau della Banca d’Italia, al numero 91 di Via Nazionale a Roma. Sei sono quelli apposti dalla banca centrale italiana, cinque invece quelli riconducibili al Ministero della Real Casa. Tutti hanno l’obiettivo di proteggere i preziosi gioielli un tempo appartenuti alla Casa Reale dei Savoia e oggi avvolti da un alone di mistero (nonché coinvolti in una serie di contenziosi circa la loro proprietà) che contribuisce ad alimentarne il fascino.
Il contenuto del cofanetto è tuttora ignoto. Nel 1946 venne consegnato dall’ultimo Re d’Italia, Umberto II – tre giorni dopo il referendum che sancì la fine della monarchia e l’inizio della Repubblica (il 5 giugno 1946) e prima della partenza in esilio verso il Portogallo- all’allora governatore della Banca d’Italia, Luigi Einaudi, cosicché potesse custodirlo.
Era il 1976 quando venne aperto per l’ultima volta, in seguito al diffondersi di voci sempre più insistenti su presunti furti che ne avrebbero ridotto il contenuto. In quell’occasione fu Gianni Bulgari a visionare i gioielli per l’ultima volta, chiamato a verificare il contenuto dello scrigno, e a stimarne il valore che lui fisso intorno ai 2 miliardi di lire, circa 10 milioni di euro attuali. Una cifra contenuta, che diversi esperti ritengono oggi possa salire fino ai 300 milioni di euro (come riporta il Corriere della Sera), sulla base dell’asta tenuta pochi anni fa da Sotheby’s, che valutò una tiara in perle e diamanti appartenuta alla famiglia per oltre un milione e mezzo di dollari.
«Possibile che il tesoro della Corona del Regno sia questo qui?», pare abbia esclamato il nipote del fondatore della maison di gioielleria romana in quell’occasione. Un’osservazione che oggi fa sorridere, se consideriamo che all’interno di quel cofanetto – prezioso al punto che nel 1943 fu nascosto in una nicchia ricavata nel cunicolo sotterraneo del Cinquecento che collega il Quirinale a Palazzo Barberini per salvaguardarlo dalle razzie naziste – sono custoditi 6.732 brillanti e 2.000 perle di varie dimensioni, per un totale di quasi duemila carati. Questo è quanto ci è consentito conoscere, dal momento che l’unico inventario disponibile registra solo la quantità delle gemme, senza riportare alcuna descrizione dei gioielli in cui furono incastonate.
Qualche informazione, tuttavia, emerge dal libro Gioielli di Casa Savoia, scritto dallo storico del gioiello Stefano Papi insieme alla principessa Maria Gabriella di Savoia, secondo cui nel caveau sono custoditi diversi pezzi realizzati dal gioielliere Musy di Torino, come il diadema della duchessa d’Aosta in oro, argento e diamanti, realizzato nel 1895 per le nozze di Elena d’Orléans con Emanuele Filiberto di Savoia-Aosta, o la tiara con undici volute di brillanti da 2.092 carati, ordinata alla storica gioielleria (ancora oggi attiva) da Umberto I. Potrebbe esserci poi il raro diamante rosa, montato su una spilla a forma di fiocco.
Tanti preziosi monili, tra diademi, orecchini e bracciali, che rappresenterebbero però solo una parte dei gioielli appartenuti alla famiglia, la quale potrebbe averne conservati alcuni come parte del proprio patrimonio privato. Come testimoniano sia alcune aste organizzate negli anni recenti, sia la tiara con motivi floreali e tormalina rosa indossata da Clotilde Courau per le nozze con Emanuele Filiberto nel 2003, diretta discendente di quella donata dalla regina Maria Teresa di Sardegna alla principessa Elisabetta di Sassonia nel 1850. A mancare poi, quasi con certezza, è il celebre collier di dieci fili con 684 perle della regina Margherita, in seguito smembrato per essere donato a diversi membri della famiglia.
Dal 2022 gli eredi Savoia ne reclamano la proprietà, esprimendo la volontà di esporre il Tesoro della Corona così come avviene per quelli un tempo appartenuti ad altre casate reali. D’altronde, a loro dire, quando i gioielli furono affidati alla Banca d’Italia il re parlò della volontà di depositarli per poi affidarli a chi ne avesse diritto. Per il Tribunale di Roma, tuttavia, quel diritto spetta allo Stato.
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