STYLE

13 Marzo 2024

Articolo di

string(15) "Camilla Bordoni"
Camilla Bordoni

Se i social media non esistessero come ci vestiremmo?

STYLE

13 Marzo 2024

Articolo di

Camilla Bordoni
Anna Pepe Social Media non esistono come ci vestiamo
IG: @annapep3

Se i social media non esistessero come ci vestiremmo?

Ammettiamolo, almeno una volta è successo a tutti di aprire l’armadio e non capire come quella gonna sfrangiata o quel jeans cargo eccessivamente baggy siano finiti lì dentro. A prescindere dal capo di abbigliamento in questione, poi però l’illuminazione è arrivata sempre come un’onda d’urto. Quel fashion piece nel guardaroba c’è finito perché probabilmente il feed Instagram era pieno di persone che lo sfoggiavano o perché quell’infulencer che seguiamo sui social media lo aveva indossato (in un video montato ad arte con CapCut).

Non è un atteggiamento così riprovevole né tanto meno una novità, dal momento che la moda in generale è sempre stata connessa all’aspetto sociale come affermazione di uno status quo o come mezzo per facilitare la propria accettazione all’interno di un gruppo. Forse quello che più è cambiato nel corso degli anni è il nostro approccio al consumo che con il web si è chiaramente amplificato. Viene perciò da chiedersi: compriamo per omologarci o per rendere personale il nostro stile? E soprattutto, se i social media non esistessero come ci vestiremmo? Usciremmo lo stesso di casa fieri dei pant a vita bassa o delle nostre ballerine che fino al mese scorso reputavamo indossabili?

Social, fashion and influencing: vesto quindi sono

La costruzione dell’identità personale passa anche dall’abito che, invero, ha un enorme potere simbolico. Tralasciando per un momento la storia e il retaggio degli usi e costumi che ci portiamo dietro, è pur certo che la moda sia uno strumento in grado di appagare il nostro bisogno di riconoscerci all’interno di una determinata società e che ci permetta anche di distinguerci. Questo stesso concetto lo aveva espresso più di un secolo fa il filosofo tedesco Georg Simmel, sottolineando appunto come si è sempre in bilico tra la ricerca di omologazione e quella di differenziazione.

Oggi, anno 2024, le cose non sono cambiate; per esempio, capita che mentre stiamo aspettando la metro, ci ritroviamo a cercare qualche styling tips da un influencer su Instagram o comprare un prodotto che ci viene consigliato per essere trendy ma allo stesso tempo diversi dalla massa. A questo punto però il dubbio è lecito: siamo noi a essere sempre più insicuri delle nostre scelte estetiche o loro molto bravi a raccomandare un prodotto?

L’influencer marketing fa parte ormai della realtà di business di ogni marchio e lo è in quanto i creator semplicemente sono riusciti a instaurare un legame “intimo” con la propria audience. Contestualmente e in gergo tecnico, la connessione unidirezionale emotiva con qualcuno che non conosciamo viene chiamata interazione parasociale e fa sì che i brand reputino lo speciale endorsement con un creator dai mille mila follower maggiormente più vero di un tradizionale post sponsorizzato sui social. Perché? Un influencer condivide sui social una buona parte della sua vita e interagisce con il suo pubblico, costruendo di giorno in giorno un rapporto di fiducia paragonabile a quello che abbiamo con un nostro amico.

Reputereste più attraente e affidabile la cartellonistica di una scarpa alla fermata del tram o una clip dove viene ricreato un look secondo l’ultima tendenza del momento anche se con un #adv abilmente mascherato? L’ago della bilancia pende spudoratamente sulla seconda opzione poiché più ingaggiante e reputato qualitativamente più alto.

Il prodotto così si permea di tutta la sua desiderabilità, diventando pure popolare se a parlarne sul web poi sono più influencer contemporaneamente. Così negli store è normale trovare dei veri e propri corner dedicati a quelle categorie merceologiche “forti sui social” (galeotti furono i booktoker!), o notare sugli e-shop la sezione “viral” possibilmente accompagnata dalla simpatica emoji del fuocherello. D’altro canto il tone of voice deve essere tassativamente friendly, non sia mai che ci si senta in colpa a tirare fuori il portafoglio.

Prima e dopo i social media. Le regole timeless dell’ootd

Ora però è il momento di fare luce su una scomoda verità. Al di là delle tecniche di influencer marketing, dei creators, dei video ASMR e della nostra home IG, anche se i social media non esistessero avremmo sempre e comunque un capo dimenticato nel guardaroba, comprato seguendo un impulso momentaneo o ascoltando il consiglio di qualcuno. Non è colpa di nessuno e no, nemmeno delle app sul telefono perché l’abito ai tempi di Instagram segue le stesse regole dell’abito ai tempi del liceo versione anni 2000.

Le mode, i trend e i ragazzi più stilosi c’erano anche prima e allo stesso modo ci si ritrovava a farsi influenzare, sfogliando una rivista di moda, chiedendo un parere al compagno di banco (invece che scriverlo nei commenti), sbirciando il look della ragazza più cool dell’istituto il giorno della foto di classe o copiare la maglietta del più popolare della scuola per poi ritrovarsi tra i corridoi vestiti tutti uguali. Certe abitudini sono dure a morire, d’altronde com’è che si dice? La moda passa, lo stile resta… più o meno.

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