Temple of Love: Rick Owens è un architetto del possibile
STYLE
30 Giugno 2025
Articolo di
Eleonora Sergi
Temple of Love: Rick Owens è un architetto del possibile
Parigi, 28 giugno. Il Palais Galliera apre le sue porte e la frase che dà il titolo alla mostra — Temple of Love — si staglia come una promessa: questa non è una semplice mostra nè un canonico sguardo d’archivio. È una navata. Una processione laica in onore di Rick Owens, unico superstite di un culto post-apocalittico fatto di pelle, piume e verità tagliate di netto.
Nel suo linguaggio tutto è ibrido: maschile e femminile si piegano l’uno nell’altro, il punk dialoga col divino, la decadenza si sublima in eleganza. La sua è una bellezza che non chiede permesso: queer, radicale, deliberatamente disturbante. I manichini non vestono: occupano lo spazio. Ci sono gli eccentrici e chiacchieratissimi Inflatable Boots accanto alla monumentalità metallica degli iconici Kiss Boots e le Mermaid Skirts, liquide e scultoree. Ogni giacca a spalle piramidali, ogni toga decostruita, ogni silhouette come un’ombra lunga sul cemento urbano, è un atto d’amore.
È la terza retrospettiva mai concessa a un designer vivente, dopo Margiela e Alaïa. Ma Owens, fedele alla sua ossessione per il controllo, qui sembra finalmente libero di abbassare il tono. “La prima mostra che ho curato a Milano era bombastica”, ha raccontato a Vogue. “Questa volevo fosse più delicata, più sfumata.” E così è: un requiem estetico, sussurrato e potente. Non una celebrazione, ma un rito: quello con cui riscrive il suo stesso epitaffio – con brutalismo e tenerezza.
Non c’è nostalgia, solo disciplina. Owens mette in scena il corpo come campo di battaglia e come rifugio. Ogni elemento — dai drappeggi liturgici alle installazioni scultoree — parla di bellezza come attrito, come scontro tra vulnerabilità e imposizione.
Nel cuore della mostra, si respira un culto profondo della differenza: ogni pezzo è una dichiarazione di esistenza contro la norma. Come se il designer avesse trasformato il Palais Galliera in una cattedrale dove l’eccesso è cura e la stranezza è metodo.
Appena si entra, si ha la sensazione di varcare un confine. Il percorso — pensato e diretto dallo stesso Owens insieme al team curatoriale del Galliera — non si limita all’interno.
Le statue sulla facciata del museo sono state bendate con stoffe ricamate a paillettes, quasi fossero reliquie pagane. Tra le siepi spuntano trenta sculture brutaliste in cemento grezzo, ispirate alla sua linea di arredi, installate tra viti e piante californiane: la natura della West Coast impiantata con chirurgia rituale nel cuore dell’Haute Ville.
All’interno, il percorso è pensato come una sequenza narrativa che va dai primi esperimenti a Los Angeles fino alle collezioni più recenti, ma senza cronologia rigida — è un flusso.
La mostra è anche un montaggio di traiettorie: è una storia che parte dal grunge di LA, passa per l’incontro con Michèle Lamy, moglie e musa, e atterra sulle passerelle europee come un meteorite di intellettualismo e apocalypse glam. I riferimenti si sovrappongono senza annullarsi: Gustave Moreau, Joris-Karl Huysmans, il modernismo, il cinema hollywoodiano delle origini, l’arte contemporanea.
L’ultima sala è forse la più sorprendente per delicatezza: ricostruisce la camera da letto e il guardaroba condivisi da Rick Owens e Lamy nel loro studio di Los Angeles, dal 1994 al 2003.
Uno spazio intimo, fatto di rituali quotidiani e amore ostinato. C’è il letto — tra i suoi primi progetti di design, poi diventato un’icona del suo minimalismo ascetico e oggi posseduto anche da Travis Scott — circondato da scaffali pieni di libri, gli unici oggetti che la coppia ha portato con sé nel trasferimento a Parigi.
È un’immagine che il designer sceglie di accompagnare dalle sinfonie di Wagner e che incarna pienamente quella gentilezza che attraversa silenziosamente tutta la mostra.
Ma per chi si aspetta solo oscurità e volumi gotici, la sorpresa è immediata: il Temple of Love non è soltanto nero. C’è rosa, rosso, verde, arancione, il suo celebre grigio “dust” e un’ironia gentile che attraversa tutto.
La vera climax arriva però nella terza stanza dell’allestimento, The Joy of Decadence. Un’immagine-simbolo: la scultura dello stilista che urina. “Not the first thing. That is the finale,” ha spiegato lui stesso a i-D. L’aveva già mostrata a Pitti Uomo vent’anni fa — un autoritratto che si libera su uno specchio, in cima a un mucchio di terra. Un gesto estremo, ma mai gratuito: “Piss is one of my motifs,” dice. È un rituale di auto-sottomissione, di isolamento e urgenza creativa.
Non è mai solo provocazione: è una confessione sulla paura di non essere ascoltati, sull’ansia di esprimersi prima che tutto svanisca. Tra le sale del Galliera, questa tensione è costante — e in quella stanza, forse non a caso, è vietato scattare foto. Come a proteggere il momento finale dove corpo e messaggio coincidono del tutto.
La retrospettiva, più che celebrare un’icona, scolpisce un’assenza. L’assenza di compromesso, di definizione e di ordine. Ma in queste assenze, nell’abisso di pelle nera e tagli asimmetrici, si forma una presenza che è impossibile ignorare.
Rick Owens non è mai stato solo uno stilista. È stato e resta un architetto del possibile. Un demiurgo dell’eccesso. Non è solo moda: è estetica dell’inadeguatezza orgogliosa.
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